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APRILE 2019 SETTEMBRE 2018 di Anna BuscaScegliere Parigi come meta d’agosto, per trascorrervi alcuni giorni, può rivelarsi una decisione molto valida. La città è sempre la “capitale d’Europa”, e non è necessario elencare i motivi che la rendono tale; inoltre è godibilissima perché, nonostante il flusso turistico, molti residenti sono in vacanza e quindi l’affollamento e il traffico sono decisamente ridotti rispetto agli altri periodi dell’anno. Fino a tre anni fa i parcheggi in strada erano ovunque gratuiti in questo mese; purtroppo questa agevolazione non esiste più – la gratuità è solo domenicale/festiva e notturna - ed è l’unica pecca da segnalare a chi, come noi, arriva a Parigi in auto. Siamo stati obbligati a lasciare la nostra vettura in un garage a pagamento (il più economico che abbiamo trovato vicino al nostro albergo), al costo di 25 euro al giorno. Chi alloggia una settimana in un hotel senza parcheggio deve dunque sempre prevedere una spesa supplementare di circa 150-200 euro da considerare nel proprio budget. Tramite l’ormai collaudatissimo Booking.com abbiamo prenotato cinque notti all’hotel Prince Albert Wagram, in Passage Cardinet, nel XVII arrondissement. E’ un piccolo albergo elegante, ben gestito, in una zona molto tranquilla di cui abbiamo apprezzato i boulevard alberati, i parchi, i bellissimi palazzi, la vicinanza al centro. Un indirizzo assolutamente consigliabile. Abbiamo scelto di dedicare il nostro tempo soprattutto a luoghi che non avevamo mai visitato precedentemente, trascurando volutamente i musei più noti e importanti. Abbiamo così evitato code alle biglietterie e l’inevitabile “sindrome di Stendhal” che colpisce ogni turista in visita al Louvre, al museo d’Orsay, al Centro Pompidou, al museo Rodin e alle innumerevoli gallerie, mostre ed esposizioni parigine, viste magari freneticamente quasi tutte insieme. Certo l’imbarazzo della scelta è sempre notevole, ma in ogni caso difficilmente si resta delusi. La nostra prima tappa è stata il famoso cimitero Père Lachaise, nel XX arrondissement, aperto nel 1804, che ospita le tombe di molti personaggi importanti ed è meta di “pellegrinaggi” di turisti, anche se in numero minore rispetto ad altri luoghi parigini. Ci aspettavamo qualcosa di simile al nostro Cimitero Monumentale milanese, invece ci sbagliavamo: i sepolcri si presentano un po’ ammassati e disordinati, in tanti stili, in maggior parte semplicissimi oppure decorati – senza particolari capolavori, tranne qualche eccezione- in stile neoclassico, neobarocco, neogotico, perfino in un evidente stato di abbandono, il che tuttavia finisce per accrescere il fascino e l’emozione della visita. Si sale lungo scale o stradine su una collina, si passa a fatica tra le tombe e la vegetazione, scoprendo per esempio che vicino a Frédéric Chopin è sepolto Michel Petrucciani (commovente!), oppure che c’è ancora la tomba di Gioacchino Rossini anche se il corpo è stato poi traslato in Santa Croce a Firenze. Molto visitata la tomba di Jim Morrison. Un consiglio: prima di recarsi al Père Lachaise è opportuno stampare una mappa del cimitero scaricandola da internet, altrimenti si può acquistare in qualche edicola (ma non all’ingresso); girare senza mappa rende quasi impossibile trovare i sepolcri che si desidera vedere, perché non è facile passare da un’area numerata ad un’altra. Lasciato il cimitero, abbiamo ripreso la metropolitana e dopo una decina di fermate siamo scesi per salire in alto alla Basilica del Sacré-Cœur. In una giornata di sole, la scalinata e le terrazze sono un meraviglioso punto di vista panoramico su tutta Parigi, assolutamente da godere; e una crèpe in place du Tertre è sempre piacevole, nonostante la folla di turisti attratti anche da una miriade di negozietti pieni di souvenirs. Scendendo, lungo la strada, ecco il cimitero di Montmartre, o Cimetière du Nord, del 1825: e una visita, per quanto veloce, è a questo punto irrinunciabile. Qui, per continuare con le sepolture di musicisti e compositori famosi, giace Hector Berlioz ; ma si trovano anche Stendhal, Degas, Heinrich Heine, Emile Zola… Una mappa su un cartello all’ingresso, se fotografata sullo smartphone, può essere sufficiente per muoversi con una certa sicurezza senza vagare a caso tra le tombe. Abbiamo deciso di rimandare la visita al cimitero di Montparnasse- anch’esso dell’inizio dell’Ottocento, a sud della città, e senz’altro interessante - al prossimo viaggio a Parigi, per non rendere il nostro tour eccessivamente monotematico… e forse un po’ funereo! Ed eccoci quindi, a metà pomeriggio, alla scintillante Fondation Louis Vuitton, aperta al pubblico nel 2014 al Bois de Boulogne e raggiunta con una bella passeggiata di poco più di un’ora dal nostro albergo. Si tratta di un edificio progettato da Frank Gehry, architetto californiano, docente a Yale, che, tra le sue numerose opere, vanta lo straordinario Guggenheim di Bilbao. Questa costruzione non è da meno: 13500 m2 di vetrate e 1500 tonnellate di acciaio per realizzare una sorta di gigantesco veliero con 12 vele trasparenti, tra vasche d’acqua limpidissima, specchi che riflettono all’infinito, cascate, scalinate, terrazze panoramiche. E’ un’opera d’arte lo stesso museo, che al suo interno ospita, su un’area di circa 11000 m2, un auditorium, numerose gallerie e grandi spazi per valide esposizioni di arte contemporanea. Intorno, un bellissimo giardino. Una visita d’obbligo! Per qualche ora di totale relax nel verde, tra una passeggiata e l’altra durante le nostre giornate parigine, abbiamo utilizzato un delizioso parco a dieci minuti a piedi dall’hotel, lo storico Parc Monceau, che Monet usò come soggetto in sei suoi quadri, dipinti tra il 1876 e il 1878. Gli ingressi sono scenografici, con preziose cancellate in ferro battuto e una Rotonda neoclassica antistante; all’interno prati, aiuole fiorite, stagni, statue, il Pavillon Courcelles – un colonnato che si specchia nell’acqua – la Pyramide, un obelisco, un romanticissimo ponte in stile veneziano. Il parco fu voluto dal duca di Chartres, Luigi Filippo II di Borbone-Orléans, nel 1778, che lo commissionò a un tale ingegner Louis Carrogis detto Carmontelle, con l’incarico di rappresentarvi ogni luogo e ogni periodo storico possibile; per questo motivo ci sono costruzioni che richiamano l’antica Grecia e l’antico Egitto, la Repubblica di Venezia etc., con evidenti richiami a simboli massonici, essendo il duca anche Gran Maestro del Grande Oriente di Francia. Il parco fu presto battezzato “la follia di Chartres”! E’ anche un luogo di memoria “proustiana” perché lì vicino, in boulevard Malesherbes, visse fino al 1900 la famiglia di Marcel Proust, che da bambino lo frequentava per giocare con i compagni. Un altro parco nei dintorni, più piccolo ma altrettanto valido per una pausa piacevolissima, è lo Square des Batignolles, oltre Rue de Rome, simile a un giardino all’inglese. Risale al 1862 e lo volle Napoleone III. Un ruscello con cascatelle e laghetti, percorso da anatre e anatroccoli, lo attraversa in tutta la sua lunghezza tra fiori, prati e alberi curatissimi. Sedersi qui su una panchina all’ombra è una meraviglia. A pochi passi un altro parco, molto grande e moderno, attrezzato con giochi e piste per skate board, stagni, viali alberati: è il Martin Luther King, in mezzo a uno straordinario quartiere tutto nuovo, dall’incredibile architettura contemporanea pensata da urbanisti, paesaggisti e ingegneri di altissimo livello. Il “Clichy-Batignolles”, in fase di completamento insieme al nuovo scalo ferroviario, viene considerato un progetto urbanistico residenziale all’avanguardia, un vero e proprio eco-quartiere attento alle scelte energetiche ed ambientali, a “emissioni zero”. Nel tempo a nostra disposizione non potevano comunque certo mancare passeggiate nelle zone più note di Parigi, tutte raggiungibili a piedi o in poche fermate di metro: l’Arc de Triomphe e gli Champs-Élysées, Notre-Dame e l’Île Saint-Louis, la Tour Eiffel e il Quartiere latino sono sempre mete stupende. Nella zona della Gare Saint-Lazare – altro soggetto amato da Monet – siamo saliti all’ultimo piano dei magazzini Printemps, dove si trova un bel ristorante-bar terrazzato, per qualche foto panoramica. Lungo la Senna ci siamo fermati a visitare due musei: il Palais de Tokyo, sede di mostre di arte contemporanea con installazioni molto originali – fino al 9 settembre l’affascinante exhibition “Enfance- Encore un jour banane pour le poisson-rêve” – e l’adiacente Museo d’arte moderna della città di Parigi, a ingresso gratuito per la collezione permanente, con opere di Picasso, Chagall, Modigliani, Matisse. Quasi un’intera giornata è stata dedicata alla Défense. Ricordavamo un quartiere di uffici, un po’ grigio e spento, e ci siamo dovuti ricredere. Un enorme centro commerciale – Les Quatre Temps – circondato da altri grandi magazzini, ristoranti, caffè, attira molti turisti oltre ai numerosissimi impiegati nelle pause di lavoro. Il grigio è anche interrotto da un vasto prato all’inglese in fase di completamento e da una vasca la cui acqua riflette le sagome dei grattacieli. Siamo saliti con uno dei quattro ascensori di cristallo trasparente (proibito a chi soffre di vertigini!) in cima alla Grand’Arche, possibilità che è rimasta preclusa fino al giugno 2017, quando si è di nuovo consentito al pubblico di accedere, al modico –si fa per dire!- prezzo di 15 euro. Oltre a uno spazio per mostre temporanee e a un caffè, si trova una grande terrazza, dove si possono organizzare eventi, aperitivi, ricevimenti: l’altezza (110 m) consente una visuale molto ampia e assolutamente straordinaria. Si coglie perfettamente l’asse Grand’Arche- Arc de Triomphe, si ammira il grande stadio e si scopre anche un quartiere interessante. Infatti si notano verso nord-ovest grattacieli curiosi, cilindrici, colorati in modi diversi, tutti raggruppati, con finestre a oblò. Sono le Tours Aillaud (dal nome del progettista Emile Aillaud), a Nanterre, nella banlieu parigina. Costruite tra il 1973 e il 1981, sono residenze nel quartiere Pablo-Picasso, e sono anche dette “Tours Nuage” per i colori pastello dei mosaici in pasta di vetro che le decorano, opera dell’artista Fabio Rieti. Due torri sono alte 105 m, con trentanove piani, le altre sedici hanno dai tredici ai venti piani. Saranno presto oggetto di restauro. L’ultima nostra visita ha riguardato la Basilica di Saint-Denis. L’abbiamo raggiunta in automobile, ma ci siamo presto pentiti della nostra scelta. A parte il notevole traffico che si incontra sulla tangenziale di Parigi, il boulevard Périphérique, una volta raggiunta Saint-Denis, a nord, ci siamo resi conto dell’impossibilità di entrare in centro, riservato ai residenti (sulla strada compaiono dissuasori mobili a scomparsa, che bloccano l’accesso) e anche dell’estrema difficoltà nel trovare un parcheggio. Lasciata quindi l’auto a notevole distanza, ci siamo recati a piedi alla Basilica, percorrendo un lungo marciapiede che costeggia le alte mura di un grandissimo parco (stranamente senza ingressi se non, evidentemente, dalla parte opposta!). La Basilica è considerata il primo edificio gotico in assoluto, modello per i successivi: risale al 1143 e sorge su un’area occupata anticamente da una necropoli gallo-romana, sulla quale erano state costruite cappelle, l’ultima delle quali consacrata nel 775 da Carlo Magno. Restaurata dopo i danni subiti nella seconda guerra mondiale, la cattedrale è imponente, con uno splendido rosone sulla facciata, e forse ancora più bella di Notre-Dame. Dal 1996 è Patrimonio culturale dell’Umanità per l’UNESCO. Ma ciò che la rende unica è il fatto di essere il magnifico mausoleo dei re e delle regine di Francia: tra transetto, presbiterio e cripta sono esposte una cinquantina di tombe–o forse più – di sovrani, principi e principesse, vissuti in un periodo di circa cinque secoli. Tra questi Filippo il Bello, Carlo V di Francia, Luigi XIV – il Re Sole – Luigi XVI e Maria Antonietta, Caterina de’ Medici. Davvero splendido il monumento funebre di Anna di Bretagna e del coniuge Luigi XII. Durante la Rivoluzione francese, nel 1792-93 i sepolcri furono profanati e in parte distrutti; i resti riesumati (circa centosettanta corpi, compresi quelli di circa venticinque abati) furono gettati in due fosse comuni, chiamate Valois e Bourbon (Borbone) perché le spoglie venivano divise in base alla dinastia. Nel 1817, sotto la seconda restaurazione, Luigi XVIII diede l’ordine di ricercare e disseppellire le salme. Furono quindi riportate nella cattedrale, insieme ai monumenti funebri che si erano salvati dalla distruzione, anche se le operazioni di recupero e riconoscimento furono per lo più molto difficili: purtroppo diversi resti, polverizzati o corrosi dalla calce, e anche oggetto di mutilazioni per alimentare un macabro commercio di reliquie, andarono perduti. Concludere un soggiorno parigino in mezzo a sepolcri, così come lo si è iniziato, può sembrare una scelta curiosa: ma si tratta di opere di altissimo valore artistico, da ammirare come se si fosse in uno straordinario museo; ed è davvero una suggestiva immersione nella storia di Francia! Parigi è anche un tempio della gastronomia e non si può certo trascurare questo piacevole lato di ogni visita, per quanto breve possa essere. Ci siamo avvalsi dell’app The Fork (La Fourchette per i francesi) che non solo ci ha consentito di apprezzare la cucina di numerosi ristoranti (due della catena Le Grand Bistro, due indiani, Royal Indien e Bombay’s, davvero eccellenti, e altri) ma anche di avere un notevole risparmio, dal 30 al 50% di sconto sui piatti, bevande escluse. A meno che si desideri réserver une table chez Maxim’s… 3 settembre 2018, Anna Busca AGOSTO 2018 A dieci km da Pisa sorge un magnifico complesso monumentale che non ha la fama e la rilevanza che meriterebbe nei circuiti turistici, perché poco segnalato e pubblicizzato: la Certosa di Calci (più spesso denominata appunto “di Pisa”), straordinario ex monastero certosino di origine trecentesca, successivamente più volte rimaneggiato, che vanta preziose opere del Seicento e del Settecento. E’ la terza Certosa più grande d’Italia, dopo quelle di Pavia e di Padula. Fondata nel 1366 in Val Graziosa, in mezzo alla campagna, grazie ai finanziamenti di ricche famiglie pisane, ospitò monaci certosini in clausura, dell’Ordine di San Bruno, fino al 1969, anno in cui fu definitivamente abbandonata dai religiosi dopo una serie di alterne vicende, in particolare la chiusura in epoca napoleonica e poi ancora sotto i Savoia. Si giunge alla Certosa attraverso due possibili percorsi, ossia due viali tra loro perpendicolari, che consentono entrambi di cogliere il grande edificio nella sua prospettiva di doppia facciata, una esterna, più bassa, che era destinata a funzioni aperte al pubblico (come la farmacia) e una interna separata da un’ampia corte a prato. Su questa spicca la facciata barocca della chiesa, in marmo, con una doppia scala molto scenografica e il timpano decorato sulla sommità da un gruppo scultoreo dell’Assunta tra gli angeli. La visita è obbligatoriamente guidata, a gruppi; gli orari di apertura sono consultabili sul sito del polo museale della Toscana. Al momento della nostra visita (domenica 26 agosto 2018) si poteva entrare solo alle 9, alle 10.30 e alle 12; in altri giorni anche al pomeriggio. Sono aperti al pubblico i chiostri (tranne uno in ristrutturazione, dove i lavori sono cominciati cinque anni fa e poi ahimè interrotti), la chiesa, le cappelle, il refettorio, gli ambienti della vita monastica, la foresteria granducale. Si cammina per lunghi corridoi, si ammirano tele e affreschi, si ascolta la guida, molto preparata, che racconta la storia dell’Ordine di san Bruno e le regole cui dovevano sottostare i fratelli e i padri: regole rigorose di silenzio, meditazione e preghiera. Si visita una delle quindici celle dei monaci, affacciate sul chiostro grande. I religiosi non potevano lasciare i locali loro assegnati, comprendenti un giardinetto con un pozzo per l’acqua e una piccola cappella personale per la preghiera, e ricevevano il cibo attraverso una finestrella; infatti soltanto la domenica mangiavano in refettorio – sala splendida, decorata magnificamente, con un affresco dell’Ultima Cena - nel più assoluto silenzio, rotto solo dalla preghiera di un orante o del priore. Potevano conversare tra loro solo una volta alla settimana in una stanza apposita, dove dovevano parlare a voce alta, sotto sorveglianza. I chiostri erano privi di vegetazione, tutto doveva essere simile a una sorta di deserto, luogo ideale per l’eremita. Immaginando la vita di questi monaci di clausura non si può non pensare a qualcosa di molto simile a una sorta di prigionia sado-masochistica davvero difficile da comprendere. La gerarchia che vigeva all’interno del monastero è comunque ancora ben evidente: l’appartamento del priore, la sua cappella e il suo giardino erano decisamente più lussuosi e confortevoli… Il priore decideva tutta la vita del convento e assegnava incarichi, lavori, perfino celle e cappelle a turno ad altri monaci o nobili che venivano ospitati, tramite un curioso dispositivo: una specie di bacheca di legno con segni mobili, che gli interessati dovevano consultare giornalmente. La regola del silenzio così non veniva infranta! Molto belle e ricche di decorazioni sono le stanze in cui veniva ospitato il granduca, che si recava periodicamente al monastero. Nella farmacia, ultima tappa della visita, si possono ammirare vere e proprie bilance di precisione a due piatti, che servivano al padre speziere per dosare gli ingredienti dei preparati medicinali. Peccato che non si possa entrare anche nella Biblioteca, nell’Archivio, nella Sagrestia, sicuramente di enorme interesse. E tutta un’ala importante della Certosa, che comprendeva locali di servizio come un gigantesco granaio, le lavanderie, il frantoio, i cortili per le attività agricole, è stata occupata dal Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa verso la fine degli anni ’70. La scelta della sede di tale museo suscita qualche perplessità, non solo perché non c’entra nulla e risulta isolato dal contesto, ma anche perché un monumento come la Certosa andava senz’altro mantenuto nella sua totale integrità per ragioni storico-artistiche. Ma la nota ancora più dolente è la politica dei prezzi che applica l’Università di Pisa per l’ingresso: il costo del biglietto intero è di 14 euro; se si opta per una visita parziale (per esempio Acquario + Dinosauri) il costo è di 8 euro. Le riduzioni sono ridicole ( 1 euro in meno!) e le agevolazioni sono riservate sostanzialmente ai locali. Per una famiglia di turisti costituita da quattro adulti la spesa per entrare sarebbe di ben 56 euro! Confrontando tali costi con quelli di altri Musei di Storia Naturale di maggiore rilevanza ci si rende conto di quanto siano assurdamente esorbitanti. Purtroppo il museo non è statale ma gestito da un’università che evidentemente pensa di più ai guadagni immediati che all’utenza… Essendo invece la Certosa per fortuna un museo statale (Museo Nazionale della Certosa Monumentale di Calci), le riduzioni e le gratuità seguono le normative vigenti; il biglietto intero costa 5 euro, il ridotto 2.50. E la spesa per l’ingresso è ampiamente ricompensata dal senso di meraviglia e di piacere che si ha nel visitare questo monumento straordinario, assolutamente imperdibile. Auspichiamo dunque che arrivino subito finanziamenti e sostegni necessari che consentano alla Certosa di Calci di mantenere la sua bellezza per gli anni a venire; e speriamo che questo gioiello venga opportunamente segnalato e pubblicizzato per consentire il flusso turistico che merita. Non si capisce perché in Italia il turismo, risorsa fondamentale, non venga adeguatamente gestito con razionalità e lungimiranza! Spostandosi più a sud si trova un altro angolo del territorio pisano, confinante con il livornese, che meriterebbe una gestione turistica più oculata, questa volta soprattutto dal punto di vista naturalistico. Siamo a Chianni, borgo collinare a neppure 300 m d’altezza, in posizione piuttosto strategica per visitare luoghi interessantissimi della Toscana e per recarsi al mare sulla costa di Castiglioncello o Cecina. Il paese è circondato da fitti boschi: non si possono predisporre passeggiate, sentieri segnati, anche solo per brevi escursioni, da proporre ai turisti? Noi abbiamo cercato di raggiungere le Cascate del Ghiaccione, unica meta, indicata anche da un cartello sulla strada carrozzabile, che ci sembrasse facilmente raggiungibile. Ci siamo invece dovuti arrendere dopo neppure dieci minuti di camminata sul greto del torrente e qualche tentativo fallito su sentieri che finivano nel nulla. In altri Paesi europei, e non solo, si cerca di incentivare il turismo sul territorio in ogni modo, non di scoraggiarlo…Ultimo appunto: la Riserva Naturale Biogenetica dei Tomboli di Cecina (Livorno), istituita nel 1977, è di fatto un’enorme pineta a ridosso della lunga spiaggia di Marina di Cecina, bellissima; si stende per circa 15 km, su un’area di circa 405 ettari, è davvero un patrimonio di vegetazione, una foresta con migliaia di alberi pregevoli (Pinus pinea, Quercus suber…), attraversata da molti sentieri , attrezzata con aree per il pic-nic e comunque ben preservata. La pineta è frutto di un progetto ottocentesco di piantumazione – avviato nel 1839 dal Granduca Leopoldo II – per proteggere da vento e salsedine le colture retrostanti e prossime alla costa. Ho provato a seguire il percorso didattico detto “della staccionata”, inaugurato lo scorso anno, a cura dell’Ufficio Territoriale Carabinieri per la Biodiversità di Cecina, nei pressi della località “Andalù”. Circa 600 m di sentiero “natura per tutti”, pensato anche per chi ha disabilità motorie o visive, con pannelli aventi “mappe visuo-tattili”, o formelle che riproducono animali e piante. L’obiettivo era interessante, peccato che il percorso, nella sua realizzazione, sia davvero povero: un paio di pannelli con qualche scheda elementare su animali o piante e troppi pannelli che continuano a dire (peraltro poco chiaramente) “Sei qui”, quando, per la brevità del sentiero, tale informazione risulta inutile e perfino fastidiosa. Troppo misere le informazioni per le “scolaresche in visita”, e comunque insufficienti e banali per chiunque. Perché le amministrazioni locali non affidano progetti di valorizzazione naturalistica della Riserva – e in generale delle zone d’interesse botanico e faunistico - ad enti scientifici o ad associazioni competenti come il WWF? Sempre nell’ottica di fornire un servizio di alta qualità – e non superficiale o approssimativo - a chi giunge per visitare gli splendori della nostra Italia. 29 agosto 2018, Anna Busca LA VACANZA PERFETTA di Anna Busca Dieci giorni tutti “italiani”, ad agosto, per una coppia che abbia bisogno di disintossicarsi dal lavoro e dalla vita cittadina senza spendere un capitale: ecco una proposta che concilia diverse esigenze e che consente il meritato relax. Tutte le prenotazioni alberghiere si possono fare molto comodamente – e con grande sicurezza – tramite Booking.com. La meta principale è l’isola d’Elba, splendida perla del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano. La prima tappa, partendo da Milano, può essere in Lunigiana, una regione ricca di fascino, tranquilla, nel verde, sul confine tra Toscana e Liguria: noi abbiamo soggiornato in un magnifico agriturismo, il Podere Magaiana, a Filattiera. Un tuffo in una bella piscina in mezzo a un grande prato, una romantica cena all’aperto a base di salumi e formaggi locali, con un buon piatto di testaroli al pesto e vino Rosso Toscano della casa: e la vacanza comincia benissimo. Dopo un’ottima colazione, la mattina seguente si lascia la Lunigiana per raggiungere Piombino, dove è d’obbligo ritagliarsi un po’ di tempo per girare il bel centro storico, fermandosi magari per uno spuntino alla Merenderia Paguro in via Ferruccio Francesco, davanti al Palazzo del Comune (ottima la frittata di patate e cipolle!). Si giunge quindi al porto per l’imbarco (noi abbiamo prenotato, con pochi giorni di anticipo, sul sito della Direct Ferries, www.directferries.it, un conveniente traghetto della Blu Navy, con partenza alle 13.45,diretto a Portoferraio, a circa 120 euro andata/ritorno per due passeggeri e automobile). Se si è in anticipo si può aspettare in una confortevole struttura climatizzata antistante i moli, a due piani, dotata di caffè, qualche negozio, totem con prese per caricare i cellulari, toilette, sedie e panche. Dopo la traversata di un’ora, si sbarca sull’isola, per una settimana piena di sole e di mare.Si può “spezzare” il periodo di vacanza scegliendo due diverse località: noi abbiamo optato per tre giorni iniziali sulla costa settentrionale e per i restanti quattro giorni su quella meridionale. Abbiamo così potuto muoverci, per visitare spiagge e luoghi, senza difficoltà o perdita di tempo. Il primo hotel in cui abbiamo soggiornato è stato il bellissimo Hotel Brigantino di Procchio ( www.hotelbrigantino.com, tel.0565907453), a pochi minuti a piedi dalla spiaggia (e con una breve passeggiata lungomare, con numerosi ristorantini e pizzerie lungo il tragitto, si può raggiungere il paese, dove si trovano localini e negozietti). Con un ottimo rapporto qualità/prezzo, in mezza pensione, abbiamo trascorso tre giorni piacevolissimi. Il mare è stupendo e non abbiamo mai trovato eccessivo affollamento perché la spiaggia è piuttosto lunga. In albergo un bel giardino curato, con una piscina, e spazi comuni freschi ed elegantemente arredati nei toni del bianco e del celeste consentono il relax, nella tranquillità più totale. Un punto di forza dell’albergo è sicuramente la cucina: abbiamo cenato benissimo.Per cambiare spiaggia si può scegliere l’adiacente La Biodola, sempre di sabbia, molto bella. Da Procchio poi si può andare agevolmente a Poggio (borgo arroccato, con magnifico panorama), a Marciana (chi lo desidera può salire dalla località Pozzatello con la cabinovia, in circa venti minuti, sul Monte Capanne, ma occorre avere buone calzature per il sentiero da percorrere poi fino alla cima, purtroppo rovinata da grandi antenne), a Marciana Marina (spiaggia La Fenicia, attenzione però alle meduse). Chi ha tempo può anche visitare la Villa di san Martino, museo nazionale, una delle due eleganti residenze di Napoleone, in esilio all’Elba tra il maggio 1814 e il febbraio 1815. La seconda località che abbiamo scelto è stata Fetovaia, famosa baia a sud-ovest dell’isola, con una bellissima spiaggia sabbiosa alle cui spalle si stende una magnifica pineta. Acque trasparentissime nonostante la folla di bagnanti rendono molto piacevoli bagni e nuotate: è consigliabile tuttavia scendere in spiaggia piuttosto presto, per poter stendere i teli da mare comodamente nella zona libera. In tarda mattinata purtroppo si fatica a camminare tra sdraiette e ombrelloni e c’è piuttosto caos. Il nostro albergo era l’Hotel Lo Scirocco, una bella struttura da cui è facile scendere al mare grazie a una scaletta posta proprio di fronte, dall’altra parte della strada. La colazione a buffet è servita in una splendida terrazza, il Garden Cafè, e dalla nostra stanza il panorama era davvero stupendo. Il luogo è molto tranquillo, con alcuni alberghi, poche case sparse sulla collina, un paio di ristoranti quasi sul mare e null’altro. Noi abbiamo cenato per due sere al Barbatoja, molto carino, con un pizzaiolo decisamente bravo (pizze squisite!). Una sera invece ci siamo inerpicati in auto per una strada ripidissima (via Vallebuia) della vicina Seccheto: in dieci minuti si raggiunge un agriturismo isolato, dove abbiamo potuto gustare ottimi piatti di pesce su una terrazza panoramica. Anche Fetovaia è in posizione strategica per girare un po’ l’isola: siamo andati a Chiessi per un bagno in acque smeraldine e per prendere il sole sdraiati su rocce piattissime; si possono raggiungere Pomonte, Cavoli, Lacona, Marina di Campo. Da qui ci siamo imbarcati per un’escursione di una giornata all’isola di Pianosa, prenotando due giorni prima perché i turisti sono “a numero chiuso”. Traghetto Aquavision A/R e biglietto d’ingresso costano 38 euro a persona. L’isola stessa non è percorribile liberamente: l’accesso individuale è consentito solo al paese – molto interessante, con edifici storici, purtroppo abbandonati e assolutamente meritevoli di restauro prima che crollino - e all’incredibile spiaggia di Cala San Giovanni, dal mare turchese, meraviglioso e indimenticabile, ricco di pesci come salpe e mormore. Per addentrarsi all’interno dell’isola è obbligatorio quindi iscriversi, anche direttamente sulla barca, a escursioni guidate, a pagamento: si va dallo snorkeling nella Baia dei Turchi, al trekking archeologico, alla gita di 11 km in mountain bike. Ogni attività dura 1-2 ore al massimo e costa mediamente 15-16 euro a persona. Noi abbiamo scelto, visto il caldo notevole, l’opzione più comoda, ma non meno interessante: il giro di una parte dell’isola in carrozza scoperta, trainata da un possente cavallo da tiro. La guida del Parco ci ha illustrato durante il tragitto i vari edifici, decisamente fatiscenti e abbandonati, che caratterizzavano l’antica colonia penale. Pianosa (Planasia) deve il suo nome al fatto di essere molto piatta: l’altitudine massima è 29 m! Nell’isola fu esiliato nel 7 d.C. il diciannovenne nipote di Ottaviano Augusto, Marco Vipsanio Agrippa Postumo, che fu ucciso da un centurione sette anni dopo, nel periodo immediatamente successivo alla morte di Augusto. Alcuni resti archeologici testimoniano la presenza dei Romani. Nel 1858 venne istituita qui dal Granducato la “colonia penale agricola” per detenuti anche condannati all’ergastolo, che dovevano occuparsi di lavori nei campi; nel 1884 vi furono portati, da tutta Italia, carcerati malati di tubercolosi. Molti morirono, ma si registrarono anche casi di cronicizzazione o di guarigione. Negli anni ’30 fu utilizzata per i prigionieri politici; anche Sandro Pertini vi trascorse un periodo di detenzione in quanto antifascista. Negli anni ’80 si pensò di chiudere la colonia, ma le stragi del ’92 di Capaci e di via D’Amelio portarono a riconsiderare l’isola come una fortezza inespugnabile per tenere in prigione i detenuti mafiosi. Divenne così un carcere di massima sicurezza, inaccessibile, fino al 1997, quando l’ultimo boss fu trasferito in un’altra struttura. L’isola fu quindi, dal 1998, restituita alla regione Toscana come gioiello del parco nazionale, fruibile dai turisti, anche se resta molto protetta dal punto di vista ambientale. Circa trenta detenuti del carcere di Porto Azzurro godono del regime di semilibertà e collaborano alla gestione del bar-ristorante e del piccolo albergo di Pianosa, il “Milena”. Tra questi, abbiamo incontrato all’ingresso delle Catacombe (molto interessanti, del IV secolo), Rachid Khamassi, tunisino, in carcere dal 1999, che ha pubblicato una sua raccolta di poesie davvero bellissime (“Dentro” – Scritti e poesie di un detenuto). Da visitare assolutamente anche la mostra di fotografie d’epoca “Pianosa com’era”, nell’antico edificio delle Regie Poste (ingresso libero), a cura dell’Associazione per la Difesa dell’Isola di Pianosa onlus ( www.associazionepianosa.it ). I volontari dell’associazione aspettano da anni gli interventi necessari per salvaguardare un prezioso patrimonio storico e architettonico che non può essere perduto per incuria e indifferenza: facciamo nostro l’appello “Salviamo Pianosa!” allo Stato e alla Regione.Rientrati all’Elba, si può completare l’itinerario meridionale salendo a Capoliveri, a sud-est, un paese con un centro storico animatissimo, ricco di locali e negozietti, in cima a un rilievo da cui si gode un ampio panorama. La spiaggia di Zuccale si raggiunge con un comodo sentiero da un grande parcheggio sterrato sovrastante. Si può anche fare un salto a Porto Azzurro, sulla costa orientale, centro grazioso non distante da Capoliveri. Il giorno della partenza si può approfittare di qualche ora per una visita a Portoferraio, sovrastata da fortezze medicee –faticose da raggiungere se la giornata è molto calda - e in parte ancora chiusa da mura fatte appunto costruire da Cosimo de’ Medici. La Villa dei Mulini, residenza napoleonica “in città”, è un museo interessante, con dipinti, mobili e arredi dell’epoca. E’ conservato in una vetrina posta al centro di una sala un mantello in velluto verde, molto raffinato, che indossava Paolina Bonaparte, sorella dell’imperatore, che era venuta a passare un periodo sull’isola a tenere compagnia al fratello esiliato. Paolina aveva portato con sé una piccola corte e organizzava feste e intrattenimenti. Belli i giardini, a picco sul mare. Una mostra multimediale inaugurata a maggio (“Napoleone Bonaparte. L’esilio dell’aquila”) e aperta fino al 13 ottobre 2018, nel vicino piazzale de Laugier, consente di ricostruire in una sorta di “viaggio esperienzale”, tramite filmati e reperti, i dieci mesi all’Elba dell’imperatore ed è sicuramente imperdibile per gli appassionati di storia. Dopo un’attesa al caldo, quasi insopportabile– non esiste a Portoferraio una sala d’aspetto climatizzata per i turisti in procinto d’imbarcarsi: si sta sotto il sole vicino alle auto! Incredibile carenza per l’isola d’Elba… - siamo saliti sul traghetto Acciarello della Blu Navy, lo stesso dell’andata, giungendo a metà pomeriggio a Piombino. Da qui si può rientrare direttamente a Milano oppure, come abbiamo preferito noi, fare un’ultima tappa, per esempio nell’elegante Montecatini Terme, centro di vacanze aristocratiche nell’Ottocento e nel primo Novecento. Abbiamo pernottato al Grand Hotel Tettuccio, in una camera ampia dall’arredo raffinato, con un rapporto qualità/prezzo davvero eccellente. L’albergo è storico, in viale Verdi, vicino alle terme omonime, bellissime, circondate da un magnifico parco. La sera, a piedi, abbiamo raggiunto la funicolare che sale in pochi minuti a Montecatini Alto, borgo medioevale con un castello e una piazzetta incantevole che ospita ristorantini perfetti per una cena tutta toscana. I numerosi turisti, soprattutto russi, tedeschi e giapponesi, si mostrano deliziati dal viaggio in funicolare, la più antica d’Europa, inaugurata nel 1898. La mattina, dopo un’ottima colazione nell’elegantissima sala dell’hotel, siamo riusciti a visitare un’interessante mostra al MO.C.A. (Montecatini Contemporary Art) che ha sede nel bel Palazzo Liberty del Comune, dedicata a graffitismo e street art. Fino al 4 novembre 2018, con ingresso gratuito, si possono ammirare opere di diversi autori, tra cui Banksy, raccolte sotto il titolo “Geniale! Gli invasori dell’arte”. Un’ultima sosta a pranzo, a conclusione della “vacanza perfetta”, nella bella Pontremoli, ancora in Lunigiana. L’Osteria della Bietola, nel centro storico, è molto consigliabile per finire in bellezza, dal punto di vista gastronomico; e tutta Pontremoli, attraversata dal Magra, con i suoi ponti e le sue case di pietra, evoca un’atmosfera magica e antica, in sintonia con tutte le emozioni e i ricordi di questo viaggio. 12 agosto 2018 Anna Busca
LUGLIO 2018 UNA CAMMINATA SUL BELLISSIMO "SENTIERO DELLE ESPRESSIONI" In questa stagione così calda, chi, tra coloro rimasti in città, non sogna di trascorrere una giornata nel verde? A circa un’ora e mezza da Milano, in Val d’Intelvi, si può percorrere un itinerario piacevole in una fresca foresta di antichi faggi, fino ad arrivare a un punto panoramico a 1200 m – cima del Monte Comana - dal quale si ammira il lago di Como; e da qui si può proseguire fino a completare un anello – calcolare mediamente tre ore di cammino - che ci riporta al punto in cui abbiamo lasciato l’auto: se poi si aggiunge che questa magnifica passeggiata consente di ammirare decine di statue lignee, intagliate negli alberi da artisti straordinari, e di gustare prodotti locali squisiti in un alpeggio che è un vero locus amoenus, ecco che la proposta diventa quasi un must. Espressioni artistiche, gastronomiche, paesaggistiche: non manca nulla! Da Milano si sceglie quindi la direzione per Como, verso Menaggio e poi verso Argegno. La meta da segnare sul navigatore è Schignano, raggiungibile con numerosi tornanti dal lungolago, ma in realtà il sentiero non parte da qui; bisogna attraversare il paese, seguire la strada – stretta e con qualche frana - per almeno una decina di minuti e giungere in località Posa. Qui si può lasciare l’auto, anche se lo spazio è ridotto e si finisce per parcheggiare sul bordo della strada… Comunque il traffico è scarso, almeno in un giorno feriale (meglio evitare la domenica!). A questo punto si calzano scarponcini da trekking e si inizia la salita. Se si segue l’indicazione del cartello “Sentiero delle Espressioni” (inaugurato nel 2014) si comincia subito a percorrere una mulattiera sassosa e ripida, davvero faticosa. Meglio optare per la stradina carrozzabile che parte un po’ più avanti, sempre sulla sinistra, più lunga ma decisamente facile, che comunque si ricollega all’itinerario. Si giunge infatti, dopo al massimo un’ora di cammino, all’Alpe Nava, dove si possono trovare mucche al pascolo, con il loro tipico scampanio. Qui un cartello, posto all’inizio del Sentiero, segnato in modo chiaro sempre da pietre o indicazioni gialle, mostra una sorta di mappa con le statue e i nomi degli artisti; subito si vedono due opere, lo Gnomo Pacio e il Mais; più avanti gli emozionanti Allattamento e Il Dono della Vita; Il Cesto Goloso, Paternità, Il Guardiano. Sembra di essere in un luogo magico. Si giunge quindi tranquillamente in un pianoro al cui centro si trova, vicino a un laghetto, il Ristoro La Pratolina (www.agriturismopratolina.it ), -chiuso il mercoledì-molto ben gestito, con tavoli di legno all’aperto – ma anche interni, in caso di maltempo. Gli escursionisti possono rifocillarsi qui con ottimi taglieri di salumi e formaggi, polenta, squisite crostate casalinghe; da non perdere il “gelato agricolo”, una delizia ottenuta da latte appena munto (naturalmente opportunamente pastorizzato). Intorno, silenzio, alberi, il verde dell’erba, il colore e il profumo dei fiori, il cielo azzurro. La città è lontanissima!! Si riprende il cammino, attraversando, poco oltre il laghetto, un’installazione intitolata “ Passaggio per l’Infinito” (molto significativo!). Si sale attraverso faggi secolari fino alla cima del Monte Comana, ammirando Saggezza, Magia, Enigma, Il Pensatore… In vetta “Il corso della Vita”, un trittico ligneo rivolto verso il magnifico panorama del lago. Si prosegue in cresta, ma sempre nella frescura di una bella vegetazione. I faggi sono stupendi e si possono immaginare i colori del bosco in autunno... Se si vuole, per ragioni di tempo, accorciare l’itinerario, si può cominciare la discesa all’altezza del Roccolo di Messo; altrimenti si procede fino alla Colma di Binate – fine del Sentiero - e si scende da qui. Due suggerimenti: 1) portarsi una borraccia con l’acqua (non ci sono sorgenti e la sete può farsi sentire); 2)in auto, cercare di evitare il breve tratto di Pedemontana a pagamento, a meno che non abbiate il Telepass. Per pagare un pedaggio di neppure 2 euro ho faticato parecchio, dato che il sito di pedemontana.com non funzionava. Si risparmiano minuti al casello (che non c’è) ma poi si sprecano ore per cercare di pagare e per evitare le sanzioni di mancato pagamento… link youtube www.youtube.com/watch?v=LOewrQOTSXw&t=304s 31 luglio 2018, Anna Busca Dall’afa milanese si può fuggire in molti modi: suggeriamo un paio di mete – molto diverse - raggiungibili in un’ora di automobile, una verso nord-est e l’altra verso sud. La prima proposta può essere accolta da chi desidera abbinare la ricerca di refrigerio a una facilissima passeggiata nel verde: si va verso Lecco, alle cosiddette Pozze di Erve. Siamo davanti al Resegone, sopra Calolziocorte; il paese di Erve, a circa 600 m di quota, in Valle San Martino, si raggiunge seguendo una strada un po’ tortuosa, in una sorta di forra. Si attraversa tutto l’abitato e si arriva a un parcheggio piuttosto ampio, sul torrente Galaveso. Qui si lascia l’automobile e si comincia la camminata. Si attraversa un bel ponte in pietra e si segue una sorta di larga mulattiera, resa più facile in alcuni punti da gradini e spesso ombreggiata dalla vegetazione. Il torrente è sulla destra e regala un piacevole mormorio di cascatelle d’acqua. Le pozze che si creano – poco profonde, adatte ai bambini, che vi sguazzano allegramente - sono davvero cristalline, ed è facile scendere, sedersi su qualche sasso e rinfrescarsi gambe e piedi. C’è chi s’immerge totalmente: una seduta di wellness assolutamente naturale, adatta però solo ai pochi che gradiscono un bagno gelido… Se si prevede di sfruttare al massimo questa possibilità occorre naturalmente avere costumi e asciugamani, e anche scarpette da scoglio, perché è facile altrimenti scivolare sui sassi. Noi abbiamo optato per semplici pediluvi, che ci hanno fatto comunque dimenticare subito la calura estiva. In mezzo ai prati e sopra il torrente, si incontra il ristoro “Due camosci”; sotto un pergolato, seduti a tavoli di legno, si possono mangiare salumi, formaggi, verdure, torte ancora calde di forno… Una meraviglia. Aperto tutti i giorni fino al 30 settembre (tel.0341607879, sig. Alberto Valsecchi). Il sentiero prosegue verso la sorgente San Carlo, nel bosco, a 750 m. L’acqua è freddissima e leggera, si può bere utilizzando il classico bicchierino di metallo che viene lasciato lì, attaccato a una catenella. Ci sono anche un paio di tavoli con panche su cui sedersi, perfette per un picnic al fresco. Chi desidera proseguire (ma deve essere attrezzato con scarponi adatti) può dirigersi al Rifugio Capanna Alpinisti Monzesi (1173 m), da cui si può ammirare la cima del Resegone (www.capannamonza.it ). La meta alternativa, che non prevede alcuna attività escursionistica ma permette ugualmente di trascorrere ore piacevoli e rinfrescanti, in perfetto relax, si trova vicino a Pavia. Nel centro Sporting Ponte Becca, nella località omonima, dove sorge il ponte costruito tra il 1910 e il 1912 nel punto in cui il Ticino confluisce nel Po, si trova una splendida piscina in mezzo al verde (www.piscinapavia.it ). Se si evitano i giorni di sabato e domenica, sicuramente più affollati, ci si ritrova in una situazione molto gradevole, anche per famiglie con bambini, e per questo merita di essere segnalata. Ci si può stendere a prendere il sole sull’erba oppure su una specie di “isola” collocata nella vasca, piuttosto grande e curata, articolata anche in una sorta di “canale” in cui si nuota tranquillamente. Nel Bar Cone, ricavato da un vero barcone in disuso e ristrutturato, si possono mangiare insalate e piatti leggeri seduti quasi in riva al fiume, davanti al ponte. Se si sceglie la fascia oraria tra le 12 e le 15 c’è un notevole sconto, e si può poi sfruttare il pomeriggio per un breve giro e un gelato nella splendida Pavia.31 luglio 2018, Anna Busca
MARZO 2018 Dramatram: un giro fra le curiosità di Milano di Giovanni Saccarello Si mettono insieme uno spettacolo teatrale e un giro turistico per la città, e si ottiene una serata originale. Le attrattive cittadine danno lo spunto per raccontare una serie di aneddoti e curiosità, non sempre conosciute dai milanesi, e fra loro cucite in un continuo dialogo fra i due attori protagonisti. Fa da teatro ambulante un tram noleggiato appositamente, che nel suo girovagare porta attori e spettatori da una scenografia all'altra. Il tram è un mezzo un po' originale per un giro turistico a Milano, anche se ha dei limiti perché i binari oggi sfiorano appena certi luoghi d'interesse, come il Duomo o la Galleria, o non li toccano più, come le chiese di S. Ambrogio o S. Marco o la zona di Brera, o non li hanno mai toccati, come la Ca' Granda od il palazzo Borromeo. Ma per gli altri luoghi va benissimo, a condizione di accontentarsi di vederli sfilare senza visitarli, perché il tram non può fermarsi fuori ad aspettare. D'altronde anche così è impensabile vedere tutta Milano in un'ora e mezza, ed una selezione è inevitabile. Si viaggia sul 1503, uno di quei gloriosi e indistruttibili tram entrati in campo fra il 1929 ed il '30 (i primi due in prova già dal '27 e '28) e che da allora hanno dominato il paesaggio milanese, anche per la quantità: numeri di servizio dal 1501 al 2002, fate il conto. Dunque il nostro è uno dei primi: ha fatto in tempo a vedere i navigli interni non ancora coperti, ed ormai, alla vigilia di compiere 90 (novanta) anni di servizio, avrà scarrozzato almeno quattro generazioni di milanesi. Tanti di noi l'avranno preso chissà quante volte, come il centinaio o poco più di suoi fratelli tuttora in servizio attivo, ormai monumenti di sé stessi. L'interno però è stato riportato alle condizioni d'origine, cioè col “salottino” in coda (che era riservato ai fumatori, cosa oggi improponibile) e naturalmente col banco del bigliettaio, che molti di noi rimpiangono, anche se lo ricordano nella posizione “classica” presso la porta posteriore, che qui manca, come in origine. Gli ultimi sedili, poi, sono imbottiti e rivolti nel senso di marcia, una specie di “prima classe” in confronto alle solite panche di legno longitudinali che per tanti anni hanno deliziato le natiche dei passeggeri. L'itinerario comincia e finisce in piazza Fontana. Si percorrono la via Larga ed il corso Italia, raggiungendo la porta Ludovica e poi la Ticinese; si continua sul corso omonimo e poi sulle vie Torino ed Orefici. Quindi sulla via Meravigli e tutto il corso Magenta, svoltando poi sulla circonvallazione per via Ariosto, l'Arco della Pace, il corso Sempione e via Procaccini fino al Monumentale. Infine si chiude il cerchio per le vie Bramante, Legnano, Tivoli, Broletto, Orefici, Mazzini e Larga. Questo percorso dà lo spunto per parlare di svariate curiosità a proposito del Verziere, della chiesa di S. Giovanni in Conca, o piuttosto di ciò che ne resta, di S. Eustorgio coi re Magi. Si continua con la darsena ed il sistema ormai perduto dei navigli interni e del Laghetto, le Colonne di S. Lorenzo e S. Satiro. Poi è la volta di di S. Maurizio al Monastero Maggiore, delle vigne di Leonardo, di S. Maria delle Grazie col Cenacolo. Un po' più lontano si trovano altri soggetti per sviluppare lo spettacolo itinerante: l'Arco della Pace ed il corso Sempione, l'Arena, il Piccolo Teatro, il Castello Sforzesco e per finire la galleria V. Emanuele. Certamente i vari luoghi si succedono in modo irregolare, perciò non è facile parlarne in modo continuo. Ma anche nei maggiori intervalli fra l'uno e l'altro, specie lungo la circonvallazione, ci sono sempre i personaggi storici, le tradizioni e la cucina, oltre a curiosità diverse (chi di noi sa dire quante statue della Madonnina ci sono in giro?), per riempire i vuoti. Una serata istruttiva, curiosa e divertente. Si svolge però una sola volta al mese, l'ultimo mercoledì. L'Associazione Culturale Dramatrà unisce teatro e visite turistiche; organizza comunque vari eventi, anche "su misura". Per saperne di più: www.dramatra.it/dramatram – info@dramatra.it - tel.340-11270357 marzo 2018 Giovanni Saccarello
FEBBRAIO 2018 A Human Adventure di Giovanni Saccarello Questa mostra racconta la storia dell'esplorazione dello spazio; è centrata principalmente, come è facile immaginare, sulla storia della Nasa, anche se non viene ignorata la concorrenza, soprattutto nella prima parte. Si tiene allo Spazio Ventura 15 a Lambrate, alla periferia di Milano (l'indirizzo coincide con la ragione sociale) fino al 4 marzo '18. A quel che ho visto, ha riscosso certamente un grande successo; ma per questo motivo è meglio evitare le ore più comode del sabato e della domenica, perché si fa una certa coda, e non è la stagione migliore per aspettare una mezz'ora fermi in strada. Queste mie non sono note “tecniche” (non sono affatto uno specialista nel settore), ma piuttosto osservazioni su alcuni particolari che danno spunti di riflessione. Si entra nella mostra percorrendo una riproduzione della passerella usata dagli astronauti per accedere al loro abitacolo in cima al razzo Saturno 5. Naturalmente loro la percorrevano a cento metri d'altezza e non raso terra come i visitatori, inoltre loro andavano un po' più lontano; ma direi che sia l'ingresso più consono che si poteva trovare. Si passa quindi nella sezione dei Sognatori: dagli scrittori più antichi che immaginavano viaggi sulla Luna ma potevano far viaggiare solo la fantasia, a quelli più moderni, aiutati dalle scoperte scientifiche avvenute man mano. Molto interessante il film di Fritz Lang Frau im Mond (La donna sulla Luna, del 1929; è l'ultimo film muto del regista) di cui viene proiettata la parte del lancio, certamente la più memorabile (il resto è un polpettone). Vi si vede il conto alla rovescia (pare che ne sia il primo documento storico) ed i protagonisti, più passeggeri che astronauti, sdraiati su lettini. Ci sono particolari tecnici reali, come l'effetto dell'accelerazione che schiaccia i protagonisti ed il razzo a più stadi (c'era la consulenza dello scienziato Oberth, progenitore della V2), misti però ad altri di ingenua fantasia: sono tutti in abiti civili, nessuno indossa caschi o respiratori ed il quadro di comando sembra quello d'una comune cabina elettrica. Ci sono quindi in mostra i progenitori, sia uomini che macchine: ovviamente primeggia il razzo tedesco V2, un'arma tremenda di guerra, che nessuno poteva fermare perché nessuno la vedeva arrivare, ma anche del tutto inaffidabile: ne andava a segno una ogni 20. Giunta troppo tardi, nel 1944, non c'era modo (per fortuna) né di costruirne tante né di provarle con calma. Sarebbe stato meglio approfondire un po' più la figura del suo genitore, Von Braun, passato agli USA con disinvoltura dopo la guerra. Certamente non era un nazista, a lui interessava soltanto lo sviluppo della tecnologia e doveva fare ciò che gli comandavano; ed è anche facile accusarlo, per chi non era al posto suo. Ma gli si può senz'altro rimproverare di aver chiuso gli occhi su quel che vedeva attorno a sé, specie su come erano costretti a lavorare per lui i prigionieri, e certo gli stessi Americani non erano poi troppo interessati a ricordarglielo. Degni di nota anche vari libri, fumetti e riviste di fantascienza, un genere che ha avuto un boom a cavallo fra gli anni '50 e '60 (chi ha i capelli bianchi se ne ricorda bene), in concomitanza coi primi lanci, e che invece era stranamente già in declino una decina d'anno dopo, con l'uomo ormai sulla Luna. Non poteva mancare lo Sputnik 1, la sorpresa dell'ottobre '57: i Russi erano riusciti a tener segreti i loro studi. Ovviamente è una replica; l'originale è andato in briciole in capo a tre mesi perché non si sapeva ancora come gestire il rientro. Questo ha dato il via alla corsa allo spazio: gli Americani non potevano star lì a guardare, nel bel mezzo della guerra fredda, ed il prestigio di essere i primi vale più di una battaglia vinta. Manca invece un cenno al primo lancio USA, due mesi dopo: il razzo Vanguard si è alzato regolarmente per qualche metro, poi si è fermato e si è accasciato a terra esplodendo e guadagnandosi una serie di appellativi (Flopnik, Spruttnik, ecc.) che finivano tutti in -nik. Certamente gli Americani erano verdi di bile, tanto più che i Russi andavano avanti: lo Sputnik 2, appena un mese dopo, aveva già a bordo il primo essere vivente, la famosa cagnetta Laika, poi pietosamente soppressa con un'iniezione, dato che neanche lei poteva rientrare. Ma la tecnologia andava avanti ed in capo a tre anni e mezzo, ancora con gran scorno degli USA, è partito Yuri Gagarin, di cui non manca un'ampia rassegna delle imprese. Però non è stato lui il primo astronauta; pare proprio che più d'uno lo abbia preceduto, ma lui è stato il primo a rientrare vivo e vegeto; dei suoi sfortunati predecessori non si saprà mai niente. Pure questo è un tema che si doveva approfondire. Gli USA han messo sotto pressione Von Braun (era il loro asso nella manica) e sono comunque riusciti a rimontare rapidamente; sono esposti abbondanti reperti dei loro primi voli. Per tutti gli anni '60 continua la corsa, col rapidissimo progresso tecnologico da ambo le parti, sotto la spinta dell'affanno ad essere i primi sulla Luna; Kennedy ha promesso di arrivarci entro il decennio. C'è anche un modello del razzo Saturno 5, non certo a grandezza naturale: l'originale era alto poco meno del Pirellone (!) e perfino il modello in scala 1:10 deve aver dato problemi di trasporto e collocazione. Molto interessante per il visitatore “normale” la sezione sugli aspetti per così dire più “umani” della vita degli astronauti: le tute che indossavano, quel che mangiavano (bello il confronto fra il menù americano e quello russo), il rasoio per radersi, il kit di sopravvivenza; ed anche suscitano curiosità, inutile negarlo, i sistemi per ovviare alla mancanza del WC a bordo. Naturalmente il clou della mostra è lo sbarco sulla Luna, la promessa di Kennedy mantenuta. Pare che la notte della diretta tv si siano azzerati furti e rapine. Pure gli studenti hanno per qualche giorno disertato manifestazioni e cortei. Ricordo che la notizia era anche sui giornali specializzati in tutt'altri settori: nelle edicole si vedevano i fogli rivoluzionari parlare di una “conquista di sangue” (l'impresa era targata USA e si era nel pieno della guerra del Vietnam), e perfino una rivista pornografica (c'erano già le prime) presentava sulla copertina in primo piano un astronauta che strizza l'occhio al lettore, e dietro la Luna che piange; titolo di scatola: “Violata!”. Ciascuno insomma la vedeva a modo suo, ma non poteva fare a meno di parlarne. Eppure, come detto, la fantascienza non era più così in auge, ed in capo a pochi anni è subentrata quasi un'assuefazione alle imprese spaziali. Fra i vari pezzi in mostra spicca il Lunar Rover, la prima automobile extraterrestre; ci sono poi i vari moduli lunari, scudi termici, capsule, ed i loro componenti, compresi strumenti e macchinari, che naturalmente a noi profani dicono poco. Ma qualcuno è notevole: fra gli strumenti campeggia un comunissimo regolo calcolatore, e pare incredibile che gli astronauti dell'Apollo lo usassero nel '66; fa poi tenerezza la scheda di memoria per il computer di bordo, che arriva a qualche Kbyte, quando noi oggi possiamo comprare in un negozio una chiavetta USB ben più piccola ma che ha milioni di volte quella capacità. Forse il pezzo più imponente è la riproduzione del muso frontale della navetta spaziale, che si sviluppa su due piani: sopra, la cabina di pilotaggio con la sua selva di strumenti; sotto, un abitacolo con degli strani sedili; e la scala a pioli che mette in comunicazione i due ambienti. Ormai gli astronauti non sono più bloccati in stretti spazi,e si muovono liberamente dentro un'astronave, come ci si immaginava ancora negli anni '50; ma quanto c'è voluto! Per chi ne ha voglia c'è anche il simulatore della centrifuga: naturalmente è roba all'acqua di rose (in fondo non si può infliggere agli spettatori della mostra l'allenamento di un vero astronauta), ma per provare il brivido nel frullatore ci vogliono un biglietto ed una coda supplementari. E si giunge al presente, con la riproduzione del telescopio Hubble, che tuttora ci gira attorno fotografando, scrutando e misurando tutto quel che dalla Terra sarebbe impossibile. Ormai questo fa parte della “normalità” quotidiana e forse non ha più nulla del fascino che emana dal passato di una tecnologia che era rivolta al futuro, ma che ormai ha già il profumo delle cose lontane. 17 febbraio 2018 Giovanni Saccarello GENNAIO 2018
L' Orrido di Ponte Alto in Trentino
di Giovanni Saccarello OTTOBRE 2017 DODICI GIORNI IN POLONIA di Giovanni Saccarello Non si va in Polonia a cercare grandi meraviglie; non si troveranno né piramidi né colossei né grandi canyon. Ci sono invece tante piccole cose carine: belle città, belle chiese, anche di legno, castelli in bella posizione, paesaggi verdeggianti, parchi naturali. Direi che sia un ottimo posto per chi ama la “cara vecchia Europa”. Cara nel bene e nel male: la Polonia ne ha viste di ogni, nella sua storia; però è anche questo turbolento passato, ed i continui rivolgimenti, che la fanno ricca di interesse. Abbiamo visitato la zona centrale e sudoccidentale del paese, toccando Varsavia, Cracovia, Breslavia (cioè Wroc ław), Poznań e Toruń.Non descriverò qui i tesori d'arte: questo è compito delle guide; dirò solo delle impressioni e delle curiosità. Ci sarebbero molte passeggiate nei parchi naturali, soprattutto sui monti Tatra; ma non eravamo in vena di sgambate ed abbiamo preferito la visita delle località come escursioni in auto da Cracovia, senza così cambiare albergo. Per i parchi naturali è meglio cercare alloggi in zona. Le autostrade sono ancora scarse, ma stanno cercando di ricuperare il ritardo: si vedono lavori un po' dappertutto. Su certe strade normali c'è rischio di ingorghi e code senza fine; ma in genere si viaggia bene. Parlando dei luoghi, ci vuole una piccola digressione sulla grafia e pronuncia. A veder certi nomi terrificanti, uno si chiede come facciano i polacchi a pronunciare tutte quelle "z" in mezzo ad altre consonanti; eppure, a sentirli parlare, è tutta una sfilza di suoni dolci tipo ciò, sci, je (francese). La "z" si sente, ogni tanto, ma viene da tutt'altra parte, cioè dalla "c", come nelle altre lingue slave: ulica (viale) si dice uliza (z dura come in nazione). La zeta nella scrittura invece serve il più delle volte a modificare la pronuncia della consonante che la precede. Poi ci sono i segni diacritici sulle consonanti e le lettere speciali, come la "Ł" che va detta come una u leggera: il nome del papa polacco va pronunciato Voitiua e non Voitila. Forse il massimo della differenza fra grafia (loro) e pronuncia (nostra) si ha nella città di Łódź che suona all'incirca Uug': neanche una delle lettere che noi diremmo. Perciò, finché parlavamo tra di noi, per non sbagliarci citavamo i vari luoghi così come li leggiamo noi. Per una ragione analoga userò qui la traduzione italiana dei luoghi, se c'è, rinunciando al nome originale. L'emblema della Varsavia del dopoguerra, nel centro moderno, è il palazzo della Cultura & della Scienza, assolutamente sovietico nell'aspetto e nelle smisurate dimensioni; io lo direi l'ecomostro di Varsavia. Oggi è un po' oscurato da altri grattacieli vicini, più moderni ma non meno pretenziosi. La zona è tutta a palazzi enormi, ma l'ambiente non è affatto soffocante: c'è molto spazio fra l'uno e l'altro. Tutta la città è ricostruita dopo la guerra, ma il centro storico è stato replicato fedelmente, anche usando i quadri settecenteschi del Bellotto! Bastano un paio d'ore per il centro storico, bello ma non eccezionale . Una stranezza: nel Rynek (piazza del mercato centrale) c'è la statua di una sirenetta, che la leggenda dice sorella di quella di Copenaghen e protettrice di Varsavia. Al di là della Vistola c'è il quartiere Praga (si chiama proprio così), rimasto intatto dalla guerra: c'erano già i Russi su questo lato, al momento della rivolta che ha causato la distruzione del centro città da parte tedesca. Perciò questa parte di Varsavia è più "vera", anche se malandata, post-sovietica e post-industriale; ma è in ripresa e perciò un po' "alternativa". Una curiosità è il Bazar Rózyckiego, non in sé (non ha niente di caratteristico), ma per la merce in vendita in almeno metà delle bancarelle: abiti da sposa! Naturalmente non mancano lo sposo, gli invitati e perfino i bambini-paggi, per i quali ci sono vestitini incredibili. Mai vista merce simile nei mercatini nostrani. Fa un caldo bestiale: si arriva a 36°, ed è pure umido; tante centinaia di km verso nord non sono servite. Ci si divertono solo i bambini che sguazzano seminudi nelle fontane, e a volte anche quelli cresciuti. Una curiosità che ci colpisce subito, e che troveremo ancora, anche in centri minori, è la quantità di notai che espongono le loro insegne per strada, come se fossero tabaccai o salumieri. Cracovia è scampata alle distruzioni belliche, e questo ha il suo peso nell'aspetto e nel fascino che emana. Da noi questa città è molto più conosciuta del resto della Polonia, e si vede subito dalla frequenza di Italiani che incontriamo; altrove ne troveremo pochi. Affacciato sulla Vistola, il Wawel, complesso fortificato, racchiude la cattedrale, il castello e vari edifici storici. L'interno della cattedrale sorprende perché è più piccolo di quel che ci si aspetta. Fra le cappelle non sorprende di trovarne una dedicata al papa Woitiła; avrebbero voluto che fosse sepolto lì, ma al rifiuto del Vaticano si sono dovuti accontentare di una reliquia, e ne hanno trovata una originalissima: un campione di sangue usato per un esame clinico! Per le belle vie Kanonicza e Grodzka sbuchiamo nella centrale piazza del mercato (Rynek), che presenta subito la chiesetta isolata di S. Adalberto. Nella grande chiesa di S. Maria c'è un polittico che rimane chiuso al mattino e aperto nel pomeriggio, per mostrare le ricche decorazioni su entrambi i lati. L'imponente piazza è animatissima, molto più di quel che ricordavo dal mio viaggio di 18 anni fa. La vicina piazza Szczepański presenta edifici liberty: il teatro vecchio, rifatto in stile eclettico, ed il palazzo secessionista Sztuki, con davanti un'altra fontana completa di bambini seminudi che si rinfrescano. C'è pure il “Bunker dell'Arte”, unico edificio di epoca sovietica nel centro città, brutto ma a modo suo pure significativo. Nel museo Czartoryski si conserva la Dama dell'Ermellino; ma l'abbiamo già vista in Italia e la escludiamo. Lì presso si raggiunge un tratto di mura, percorribile, e la porta Floriańska; all'esterno, circondato dal verde, si trova il barbacane, corpo avanzato di difesa analogo a quello di Varsavia. Nei paraggi c'è un bel museo del sottosuolo, che, partendo dai reperti trovati negli scavi sotto il Rynek, ricostruisce la storia delle trasformazioni urbanistiche, usando anche sistemi multimediali. Merita anche il caratteristico quartiere ebraico, col cimitero che direi meno sgangherato di quello di Praga. La successione delle varie sinagoghe è spezzata dalla chiesa del Corpus Domini, tutta circondata da un alto muro: d'altronde è un'isola cattolica nel ghetto, un'isola nell'isola! La cucina locale comprende ottime zuppe di funghi e, strano a dirsi, grandi ravioli (pierogi) che non ci si aspetterebbe di trovare fuori dall'Italia. La prima chiesetta di legno che visitiamo è a Debno, verso i monti Tatra: piccola, carina, isolata dal paese e circondata da un basso recinto, sempre ligneo. Molto belle le tegole tondeggianti che seguono le curvature. L'interno è tutto dipinto con decorazioni che sembrano ricami finissimi. Poco più ad est c'è il castello Dunajec di Niedzica, in magnifica posizione sopra un lago artificiale circondato dalle foreste. Solo visite guidate, ed in polacco; fortuna che ci sono abbondanti cartelli in inglese. Questa regione, presso il confine slovacco, è ricca di escursioni naturalistiche. Si può fare il “rafting” sul fiume (in realtà su barche normali: non ci si bagna), ma è un po' lungo il ritorno in autobus. Le rocce fra i meandri del fiume non sono poi così eccezionali: chi frequenta i paesaggi alpini è abituato a ben altro. A Lipnica Murowana troviamo un'altra chiesa di legno; è ancora aperta malgrado l'ora tarda, e c'è dentro gente in preghiera: una cosa che sorprende è il diffuso fervore religioso. Il monastero di Jasna Góra a Częstochova, un po' rialzato sulla città, è un complesso di chiese e alloggi per i pellegrini, preceduto da un vastissimo piazzale per cerimonie all'aperto: lo troviamo deserto, ma è facile immaginarlo zeppo di gente in certe occasioni. Dentro invece la folla c'è, specie ovviamente per la Madonna Nera; colpisce lo spessore che separa il dipinto su legno, scuro, dal contorno argenteo aggiunto poi. A Pieskowa Skała il castello fa da museo: vi si trovano le opere trasferite dal castello di Cracovia. Si trova in bella posizione, dentro una gola stretta e pittoresca di un parco naturale che comprende lì accanto anche la “clava di Ercole”, un originale roccione isolato. La miniera di sale di Wieliczka richiede tempi lunghi a causa dell'affollamento, più che mai nei giorni di Ferragosto, anche se è a poca distanza da Cracovia. Le visite sono solo guidate, e in più lingue; ma in italiano sono solo tre al giorno, come quelle in francese, spagnolo, ecc., e quindi bisogna imbroccare l'orario; invece ne parte una in inglese ogni venti minuti. Si comincia scendendo 540 gradini; fa subito fresco, ma non molto: non metterò mai il maglione di riserva. Cercando notizie in rete, avevamo notato che fra la varie FAQ sulla miniera c'era chi chiedeva se si possono leccare le pareti per accertarsi che si tratti veramente di sale: che idea! Eppure adesso c'è nel gruppo un tale che fa questa domanda! La risposta della guida, ben abituata, è lapalissiana: “fate conto che ogni anno nella miniera passano un milione e rotti di visitatori: vedete voi”. Le prime gallerie non sono eclatanti, ma poi, scendendo con altre scale a livelli più bassi, subentrano alcuni ambienti grandiosi, che culminano nella vastissima chiesa sotterranea. Qua e là ci sono degli “effetti speciali” un po' hollywoodiani: scoppio di grisou, varie scene animate di minatori e laghetto con musiche di Chopin di sottofondo. Naturalmente nel finale ci sono bar, ristoranti, saloni per feste e quant'altro. Un'ulteriore seccatura: la coda per l'ascensore al ritorno; comunque si può salire a piedi, se uno se la sente. A Kalvaria Zebrzydowska c'è un convento con annessa Via Crucis sulla collina, come fa capire il nome; pare che sia il 2° luogo di pellegrinaggio polacco dopo Częstochova. Le 42 cappelle sparse nel bosco sono a volte delle vere chiese; tutto il complesso è affollato da comitive in preghiera, e c'è pure un tale vestito da Gesù, con la Croce e tutto. Lo spettacolo più che dal luogo è dato dai pellegrini. Poco oltre, a Barwałd, troviamo un'altra chiesetta di legno, sempre entro un recinto stavolta in muratura.
Breslavia (Wrocław; ho preferito il nome tedesco italianizzato: quello reale suona all'incirca Vrozuav) è carina nell'immancabile Rynek, col suo municipio scenografico, e nei vari palazzi qua e là, come l'università ed il rosseggiante Ossolineum, biblioteca nazionale. Ma è graziosa soprattutto nella zona attorno al fiume Odra (l'Oder tedesco, che più a nord fa da confine), che si ramifica e divide il quartiere in varie isolette. Su una di queste sorge la cattedrale; il ponte che vi arriva è zeppo all'inverosimile di lucchetti. Tutta la zona ha un'aria “riposante”, come secondo me è normale dove ci sono specchi d'acqua fra le case. Una curiosità di questa città: chi va in giro col naso in aria rischia di inciampare nelle statuette bronzee degli gnomi, diffusi un po' ovunque nel centro e alti meno di mezzo metro. Derivano da un bonario movimento di protesta nato negli ultimi anni dell'ancien régime. A Swidnica è notevole la chiesa di S. Trinità: è la più grande chiesa di legno, e può contenere 7.500 persone! Si tratta di una delle “chiese della pace”, concesse ai protestanti dopo la pace di Westfalia del 1648, ma a certe condizioni: fuori mura, niente campanili e soprattutto usare esclusivamente il legno. Tra l'altro è in graticcio, raro in Polonia. Anche dentro tutto è di legno, perfino gli altari che sembrano in marmo lucido e i grandiosi palchi. Sono escluse solo le canne dell'organo e la luce elettrica, sfuggita alle limitazioni seicentesche. A poca distanza c'è il castello di Ksiąz, in magnifica posizione nella foresta, a strapiombo sul fiume. Abbiamo dovuto pure qui prendere una visita guidata in polacco; non si capisce un'acca, ma la guida ogni tanto ci fa un breve riassunto in inglese: siamo gli unici non polacchi del gruppo. Ci sono cartelli in inglese, ma non dappertutto, e nessuno nelle gallerie scavate dai Tedeschi nell'ultima guerra per trasformarlo in fortezza, visitabili in parte.
A Poznań, tanto per cambiare, il centro è il Rynek, con bei palazzi attorno ed in mezzo i suoi bravi mercato e municipio, quest'ultimo insolitamente chiaro ed irto di torrette con cupole color verderame. A mezzogiorno non bisogna perdersi lo show dell'orologio; si tratta del solito carillon con figure animate, però questo è originalissimo. Non sono i soliti santi che sfilano: alle 12 si apre una porticina e ne escono due capre, che poi si girano l'una contro l'altra e si pigliano a cornate! Finiti i dodici scambi di cortesie, mentre le capre rientrano compare un trombettiere (vero) che suona un po', poi saluta tutti e lo spettacolo è finito. La scena ricorda un scontro caprino realmente avvenuto, illustrato pure in un monumento presso la chiesa di S. Stanislao; il trombettiere ricorre anche in altri casi, come nella torre della chiesa di S. Maria a Cracovia. Colpisce il finto castello Królewski, sull'altura presso la chiesa dei Francescani: rifatto da zero nel 2012, è in stile polacco, un intruso in mezzo ad una città che è stata prussiana fino al 1918 (si chiamava Posen), e quindi di impronta tedesca. Varie zone sono post-industriali: un gran birrificio è diventato un centro commerciale; è il solito riuso consumistico, ma almeno la bella struttura si è salvata. La cattedrale si trova su un'isola fra due bracci del fiume, in posizione che ricorda quella di Breslavia, ma molto meno pittoresca. Più oltre c'è un piccolo quartiere di artisti, con la chiesetta di S. Margherita. Come quelle di legno, anche questa è recintata ma l'unica entrata è chiusa, il muro è alto e non si vede niente. La cosa più interessante nella piazzetta è un enorme trompe-l'oeil con figure di case caratteristiche. Nelle foreste fra Gniezno e Toruń si vedono centinaia e centinaia di alberi schiantati: dev'esserci stato un uragano, e anche di recente. Si scoprirà che ha fatto 5 morti, 8 giorni fa, nella zona di Tuchova, un centinaio di km a nord di qui. A Gąsawa c'imbattiamo in un'ennesima chiesa di legno. Come al solito è in mezzo ad un recinto, ma su un fianco le è stata aggiunta una cappella in muratura, per di più bianca in un insieme scuro! Proseguiamo per Biskupin, dove c'è un museo archeologico che ricostruisce un insediamento protostorico. Non ne siamo interessati, ma mi fermo lo stesso a guardare da fuori: hanno ricostruito un villaggio di capanne col tetto di paglia; è una cosa un po' finta, ma può interessare gli appassionati. Siamo in una bella regione di laghi e foreste, queste ultime sempre scorticate qua e là. A Wenecja presso la stazione di una piccola ferrovia turistica ci sono i pochi ruderi di un castello, con ricostruzioni (pure qui) di macchine da guerra medievali. Si pronuncia Venezia, e non è un caso: vuole indicare un abitato in mezzo alle acque, ma il paesaggio attorno più che veneziano è finlandese. Bello l'arrivo a Toruń dal ponte sulla Vistola. La città ha un centro diviso in due parti, la Città Vecchia e quella Nuova (nuova in senso relativo: è del 1264), ciascuna con un Rynek per conto suo. Naturalmente il clou è nel Rynek di quella Vecchia, col bel municipio al centro e bei palazzi attorno. Siamo nella città di Copernico, e non ne poteva mancare il monumento: mi piace la sintetica definizione “terrae motor, solis caelique stator”. Sulla piazza invece di uno gnomo c'è una statuetta di bronzo che raffigura un cane, abbastanza realistica da ingannare un cane vero che le abbaia contro; quando poi il padrone divertito accarezza il cane finto, quello vero non ci vede più e si avventa sulla statua, nell'ilarità generale! Meglio del carillon delle capre. La Città Nuova è meno interessante. Sono ben conservate le mura lungo la Vistola, che hanno, all'angolo sud-ovest, una torre pendente: direi che penda molto di più di quella pisana, ma è molto più bassa e non isolata, essendo parte delle mura, perciò è poco appariscente. Riattraversiamo la Vistola davanti alla prossima meta, Płock (questa sembra facile da pronunciare, una volta tanto; in realtà dovrebbe suonare all'incirca Puozk). La veduta della città dal ponte è scenografica. Anche qui l'orologio del municipio sul solito Rynek ha il carillon animato, stavolta con un tizio che posa la spada sulla spalla di un altro: sarà la scena di un'investitura, ma non ne conosciamo i particolari. La scena è conclusa pure qui dal suonatore di tromba. Stavolta però nella piazza siamo in quattro gatti, non la folla di Poznań: a quanto pare è un centro poco conosciuto. La città è affacciata sulla Vistola da una certa altezza, e perciò con vaste vedute. Una torre dell'ex castello fa da campanile alla bella cattedrale. Lungo la strada, presso Goławin, troviamo l'ultima chiesetta di legno. Poi rimane solo da raggiungere l'aereo per rientrare a casa.
7 ottobre 2017 Giovanni Saccarello
SETTEMBRE 2017 Una bella vacanza di una decina di giorni in Croazia, piuttosto economica visto il cambio abbastanza conveniente ( 1 euro vale circa 7.46 Kune), può essere organizzata anche all’ultimo momento, perfino in agosto. E’ quello che abbiamo fatto, decidendo il 31 luglio di partire il giorno dopo in auto da Milano, dopo aver prenotato la prima notte in Friuli su Booking. Lungo l’A4, nelle vicinanze di Verona, optiamo per una sosta di notevole interesse culturale: il castello di Soave, che non si può fare a meno di notare, tanto è imponente, passando in autostrada ( www.castellodisoave.it). L’orario estivo prevede l’apertura dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18.30 (chiuso il lunedì). Fondato agli inizi del X secolo, passò a diverse famiglie feudali, poi agli Scaligeri, ai Visconti, agli Asburgo, ai Veneziani, fino a perdere il suo prestigio di fortezza per essere adibito a fattoria, subendo un grave degrado. Nell’Ottocento fu acquistato da una famiglia –tuttora proprietaria – che lo restaurò e poi lo aprì al pubblico. Attraverso un ponte levatoio si accede a una serie di tre cortili circondati da una bella cinta muraria, con un interessante torrione, un pozzo, un’abitazione medioevale che ospitava la guarnigione. Vale sicuramente la visita! Inoltre, è un bell’inizio “tutto italiano” di una vacanza oltre confine.Il pernottamento alla Bajta Fattoria Carsica, un agriturismo nel verde in Località Sales, sopra Trieste, è piacevole e rilassante. Ripartiamo la mattina, entrando in Slovenia (attenzione alla vignetta obbligatoria se si sceglie l’autostrada!). In Croazia, a poco più di 60 km da Fiume, ci aspetterà un secondo castello: quello di Segna (Senj), la cinquecentesca fortezza Nehaj, su un’altura che domina la città e il mare. Molto panoramica la vista dalle torri; ci si può pure fermare a mangiare un boccone, perché all’interno vi è un’osteria, con tavoli anche all’aperto. La nostra prima meta croata tuttavia non è Senj ma Skradin, delizioso paese all’ingresso del Parco Nazionale di Krka. La camera, prenotata grazie a Booking presso la Guesthouse Ivan (dr.Franje Tudmana 15), si rivela molto graziosa, e si è in pieno centro, a due passi da localini dove si mangia benissimo spendendo poco. Si è vicini anche al porto: in realtà un porto fluviale, anche se la foce del fiume Krka (Cherca) non è distante e sembra di essere su un’ampia baia, paradiso di uccelli acquatici (numerosi i cigni). Molti yacht lussuosi sono ormeggiati qui, accanto a piccole barche di pescatori. Si può effettuare la visita del Parco utilizzando una motonave da Skradin (biglietteria al porto) il cui costo comprende l’ingresso: si risale un tratto di fiume, si sbarca e si inizia un magnifico percorso nel verde su un sentiero di circa 2 km, che porta ad ammirare le splendide cascate di Scardona (Skradinski buk, ): qui si può anche fare il bagno. In realtà esistono numerose altre possibilità di escursioni, sia in nave, che in bicicletta, o con affascinanti trekking, per esempio fino al lago di Visovac, con un’isola famosa per il suo quattrocentesco monastero francescano, oppure al monastero di Krka o ad altre cascate più all’interno. Più di mille specie di piante, anfibi, rettili, specie endemiche di pesci, uccelli migratori popolano il Parco, la cui area si estende per circa 109 km2 ( www.npkrka.hr).Giunti a Spalato – già visitata in un viaggio precedente e imperdibile per il suo straordinario centro storico -ci imbarchiamo per l’isola di Brač. La meta è Supetar, la città più grande dell’isola (4000 abitanti), raggiunta in circa 50 minuti di navigazione su un traghetto della compagnia Jadrolinija (biglietteria al porto, quattordici partenze dalle 5.15 alle 23.59 a luglio e agosto). L’albergo prenotato è Villa Britanida (Hrvatskih velikana 26), una struttura semplice, pulita, con una convenzione per un parcheggio privato –gratuito- proprio davanti, e a poche decine di metri da graziose calette dove fare il bagno in acque trasparentissime. Con una breve passeggiata si raggiunge il centro e il suo elegante lungomare. Una bella chiesa barocca, la parrocchia dell’Assunzione di Maria, si trova in cima a una scenografica scalinata . Negozi, taverne (konobe) e gelaterie, molto frequentate, rendono l’atmosfera vivace e piacevole. Camminare nei vicoli, tra case di pietra, consente di scoprire opere d’arte inaspettate come l’“Allegoria della mente” , bel bronzo del 1886 di Ivan Rendić, eccellente scultore nativo di Supetar. E sulle sue tracce intraprendiamo un percorso suggestivo, dalla Galerija Ivan Rendic, un piccolo museo con busti in bronzo e in marmo – opere davvero interessanti - fino al cimitero, sulla punta San Nicola, dove si trovano altri suoi pregevoli lavori di arte funeraria, in particolare teste di Cristo, angeli, una Pietà, fini bassorilievi. La tomba di Rendic (1849-1932) è all’ingresso, semplice e quasi simbolica nella sua purezza. Intorno, il cielo e il mare azzurrissimi e il verde dei pini marittimi. Dall’arte alla natura il passo è breve: attraversando l’isola in auto abbiamo ammirato paesaggi rocciosi e una bella vegetazione mediterranea. Una breve sosta nel paesino di Škrip ci ha consentito di vedere la chiesa di sant’Elena (XVIII sec., foto 6) e l’interno di un antico castello in rovina. A Bol ci siamo fermati nella famosa spiaggia del Corno d’Oro : una lingua di costa coperta da ghiaia fine, circondata da meravigliose acque color smeraldo chiaro (foto 7). Si può anche stare all’ombra di grandi pini e prendere uno spuntino nei numerosi centri di ristoro. L’unico problema può essere l’affollamento: meglio arrivare presto! Ci siamo fermati a Brač cinque giorni, riuscendo a fare splendidi bagni in diverse località. Tra queste, Splitska ci è piaciuta molto, tranquilla e raccolta intorno a una bella baia. Tornati a Spalato, ci siamo diretti a nord, oltre Šibenik, verso Tisno, sull’isola di Murter (foto 8 e 9). In realtà il paese è tagliato in due da uno stretto canale, ed è solo il grazioso centro storico realmente sull’isola: si raggiunge comunque con facilità grazie a un piccolo ponte. Tisno è nota per un Festival Musicale che si svolge proprio in agosto: temevamo di trovare folla e confusione, invece la sede del festival è a un paio di chilometri di distanza e si gode della massima tranquillità. Inoltre, ottime konobe consentono di gustare la migliore cucina dalmata, naturalmente a base di pesce. A pochi chilometri si raggiunge Murter, il capoluogo dell’isola. Da qui partono crociere di un giorno per il Parco Nazionale delle Kornati: le cosiddette isole “Incoronate” sono circa centocinquanta, anche se poco più della metà costituiscono il Parco. Splendide rocce calcaree affiorano creando un arcipelago davvero unico . La maggioranza delle isole è disabitata e pressoché priva di vegetazione. La nostra crociera sulla nave “Il Re del Mare” è durata circa sette ore; prevedeva il pranzo a bordo (squisito il pesce arrosto) e una sosta di un paio d’ore in un’isola, dove abbiamo potuto nuotare in acque assolutamente cristalline. A Tisno abbiamo trascorso tre giorni, sufficienti per conoscere Murter e organizzarci per la visita al Parco, soprannominato, non a torto, la “Polinesia croata”. Sulla strada del ritorno abbiamo fatto una breve sortita all’isola di Krk, raggiungibile tramite un ponte a pagamento. Krk appartiene all’arcipelago del Quarnero ed è la seconda isola più grande. Dista solo 120 km da Trieste. Abbiamo visto belle spiagge ed eleganti strutture turistiche, nel complesso ci è sembrata interessante. Le dedicheremo senz’altro più tempo nella nostra prossima vacanza croata!
Milano, 25 settembre 2017 Anna Busca
AGOSTO 2017 SPIAGGE DI PERLE, MARE DI SMERALDO di Anna Busca Una vacanza di dieci giorni in Sardegna, l’isola-gioiello, nel mese di luglio: possibile anche last-minute e… low cost. Siamo in tre e cominciamo a organizzarci il 10 luglio navigando online. Primo passo: ricerca di un traghetto a prezzi accettabili. Troviamo la soluzione con la Moby Lines: partenza da Piombino il 16 alle 14.30, arrivo ad Olbia cinque ore dopo. Il ritorno, da Olbia, il 26 alle 8.15. Tre biglietti A/R, compresa l’automobile, ci costano poco più di 300 euro, perché usufruiamo dello sconto “partenze intelligenti”... Dobbiamo solo raggiungere Piombino: da Milano sono circa quattro ore di autostrada (anche meno se il traffico è scarso) e partendo alle 8 si giunge verso mezzogiorno. L’unico problema, alla partenza, sarà il ritardo di un’ora del traghetto (abbiamo aspettato l’imbarco in un edificio del porto, con negozi, bar e sale d’attesa un po’ affollate; ma siamo anche riusciti, un po’ prima, a visitare l’interessante Museo Archeologico di Piombino, con preziosi reperti etruschi dell’area di Populonia, ottimizzando i tempi di attesa). Booking.com ci viene poi in aiuto per la prenotazione degli alloggi: troviamo un albergo per la prima notte ad Olbia (Hotel Royal, viale Aldo Moro 333), uno per quattro notti ad Arzachena (Hotel Citti, viale Costa Smeralda 197), un appartamento per quattro notti ad Orosei (Villa Marina, via Giotto 4) e infine ancora un albergo per l’ultima notte ad Olbia (Hotel Ristorante Terranova, via Garibaldi 3). Costo totale: circa 1000 euro. Considerando che negli hotel la colazione è sempre compresa, la spesa di poco più di 33 euro al giorno per ciascuno di noi (in stanza tripla) ci sembra ragionevole. Prenotati alloggi e traghetto, siamo pronti per la nostra vacanza. Ci imbarchiamo sulla Moby Wonder e il viaggio risulta piacevole, le sale e i luoghi di ristoro danno un buon comfort nonostante l’elevato numero di passeggeri. Sbarcati ad Olbia intorno alle 20.30, raggiungiamo in breve il nostro albergo, dove ceniamo con un ottimo menù a prezzo fisso (15 euro a testa) che include un delizioso piatto di pesce e il croccante pane carasau. L’inizio è davvero eccellente! La mattina dopo raggiungiamo il centro di Olbia per una breve visita. Restiamo affascinati dalla chiesa di S. Simplicio (XI-XII sec.), in alto, in puro stile romanico. Il centro è grazioso e vivace: si percorre corso Umberto I, fiancheggiato da caffè e negozi, si ammira la cupola policroma della chiesa di San Paolo e si giunge al porto, dove un magnifico veliero è ormeggiato tra imbarcazioni di lusso e barche di pescatori. Si parte prima di pranzo e arriviamo in poco più di mezz’ora ad Arzachena, che dista solo una trentina di chilometri. Troviamo una situazione di assoluta tranquillità: la cittadina sembra quasi deserta; il centro, che si raggiunge facilmente percorrendo alcune vie in salita, non ha né traffico né turisti. Eppure la posizione è invidiabile e strategica: sia i siti archeologici che le splendide spiagge della Costa Smeralda sono vicini; in auto vi si arriva velocemente senza problemi. Ed eccoci sdraiati sulla sabbia dorata delle spiagge più note: Liscia Ruia, Poltu di li Cogghji, Piccolo Pevero, Capriccioli, del Principe, Mannena, L’Ulticeddhu… In quattro giorni siamo riusciti, cambiando facilmente località mattina e pomeriggio, a nuotare nelle incredibili acque cristalline sia della Costa Smeralda che del Golfo di Arzachena. In spiaggia non c’è mai molta gente, si trova sempre il parcheggio e posti isolati per godersi sole e riposo. Il paesaggio è bellissimo, pinete e vegetazione mediterranea rendono l’aria ancora più profumata. Facile anche raggiungere Baia Sardinia, Cannigione, Porto Cervo: quest’ultimo centro, pur essendo tra i più noti, ci è parso molto “artificiale”, con case, piazzette e negozietti che potrebbero essere ovunque, eleganti e ordinati ma senz’anima, davanti a decine di yacht e barche che sembrano essere lì solo come vuoti emblemi di ricchezza. Una delusione. In cima al villaggio si trova però una chiesetta bianca, Stella Maris, che riserva qualche sorpresa piacevole a chi cerca nel luogo qualcosa di artistico: l’architetto Michele Busiri Vici, negli anni ’60, volle costruire un edificio singolare, bianco,in stile “mediterraneo”, con un campanile a cono, finestre decorate, un porticato sorretto da sei monoliti; lo scultore Luciano Minguzzi è l’autore delle bellissime porte in bronzo, di opere e arredi all’interno. Spicca in una nicchia un dipinto di El Greco, Mater dolorosa. Ne risulta un piccolo capolavoro, da cui si può oltretutto ammirare un magnifico panorama. Da Arzachena ci siamo spostati nei siti archeologici più famosi della Gallura: abbiamo visitato il complesso nuragico La Prisgiona, del II millennio a.C., con un grande nuraghe complesso a tholos (ossia con una sala circolare e una pseudocupola) e resti di altre costruzioni intorno (circa un centinaio), un pozzo, la “capanna delle riunioni” con un sedile ad anello; a breve distanza ecco la Tomba dei Giganti Coddu ‘Ecchjiu, poi la necropoli Li Muri e un’altra Tomba dei Giganti (Li Lolghi). Tutti monumenti straordinari, interessantissime testimonianze di una civiltà di circa quattromila anni fa, che utilizzava massi e lastre di granito per costruire capanne, villaggi e sepolcri collettivi ricchi di simboli. Anche l’enorme roccia granitica che domina Arzachena, detta il Fungo, dalla quale si gode un bel panorama, veniva utilizzata come luogo di riunioni e rituali. Siamo poi saliti, con una passeggiata di mezz’ora, in qualche punto un po’ erta e faticosa (occorrono buone scarpe) al suggestivo Tempietto Malchittu, risalente all’Età del Bronzo Medio (1600-1300 a.C.).Molto ben conservato, circondato dalla vegetazione, destinato probabilmente a riti sacri e offerte votive, ma anche in altri momenti a riunioni di carattere non religioso. Una visita davvero imperdibile. All’ufficio turistico, all’ingresso di Arzachena e presso il sentiero per il tempietto, si possono acquistare convenienti biglietti cumulativi per tutti i siti archeologici, da utilizzare anche in più giorni. Santa Teresa di Gallura, con le sue case colorate, la cinquecentesca torre aragonese – dalla quale si può ammirare la costa della Corsica, sulle Bocche di Bonifacio – e il magnifico Capo Testa, con un mare dalle acque trasparentissime, è un’altra meta obbligata. Da Palau abbiamo preso un traghetto che ci ha portato all’isola della Maddalena (ogni mezz’ora circa ci sono partenze dal porto, www.delcomar.it , poco più di 50 euro A/R per auto e tre passeggeri); attraversando poi un ponte siamo giunti a Caprera. Abbiamo compreso pienamente le ragioni che spinsero Giuseppe Garibaldi a trascorrere più di un quarto di secolo della sua vita su questo isolotto granitico: il mare, l’aria balsamica, il silenzio, la pace, la vita semplice sedussero l’Eroe dei Due Mondi, forse deluso, amareggiato e stanco di battaglie sanguinose, guerre, momenti effimeri di gloria, perfino di una fama a volte fastidiosa. Il Compendio Garibaldino è visitabile: si entra nella casa, obbligatoriamente in gruppo, e la guida illustra i momenti salienti della vita pubblica e privata di Garibaldi, i suoi oggetti personali, la quotidianità a Caprera, la sua malattia, la sua morte. Garibaldi spirò qui il 2 giugno 1882, a 74 anni, circondato dai famigliari: volle che negli ultimi giorni di agonia (aveva una grave e dolorosa artrite reumatoide) il suo letto fosse posto davanti alla finestra, per vedere quel mare meraviglioso che amava, prima di chiudere gli occhi per sempre. Lasciata Arzachena – ma saremmo rimasti ancora almeno una settimana, se avessimo avuto il tempo – siamo partiti per Orosei. Prima di dirigerci a sud abbiamo deciso di salire sul Monte Moro (422 m) per ammirare dall’alto il panorama della Costa Smeralda: la strada tuttavia a un certo punto non è più asfaltata e presenta buche e pendenze tali che solo un fuoristrada può proseguire in sicurezza. La nostra utilitaria rischiava di subire qualche danno e siamo riusciti a parcheggiarla in qualche modo su uno spiazzo, per proseguire poi a piedi verso la meta. Una fatica davvero notevole, sotto il sole a picco, premiata però dalla vista che si può godere dalla cima, raggiunta tramite una scaletta di pietra, tra costruzioni abbandonate e antenne televisive. Il vento lassù è fortissimo, sembra di essere in alta quota. Scesi dal Monte Moro, siamo poi passati per la bella San Pantaleo, Golfo Aranci, Porto Rotondo. Siamo capitati ad Orosei nei giorni della festa di San Giacomo, patrono della città, quindi l’atmosfera era del tutto diversa da quella di Arzachena. Folla di turisti nelle vie del centro storico, feste e mercati nelle piazze, concerti (anche Enrico Ruggeri!), manifestazioni: insomma una città molto vivace, accogliente, con l’imbarazzo della scelta per gelaterie, bar, taverne, negozi di artigianato. L’attività balneare è favorita anche qui da spiagge stupende, in oasi naturalistiche – paradisi per gli ornitologi - come quella della vicina Su Barone (www.oasisubarone.it )o, più a nord, di Biderosa (www.oasibiderosa.com ,da prenotare se si vuole entrare con l’auto , a 12 euro + 1 euro/persona; altrimenti una comoda navetta, dal parcheggio esterno, attraversa la pineta e porta i turisti in prossimità del mare, a 10 euro/persona). Bellissima Cala Liberotto; belle anche le spiagge più a sud, verso Cala Gonone, ma qui il mare è subito profondo e le onde possono dare qualche problema a chi non è un nuotatore provetto. Chi lo desidera può pagare da qui circa 30 euro a persona per una crociera di qualche ora che porta i turisti a visitare la vicina grotta del Bue Marino e due calette molto graziose (Cala Luna e Cala Mariolu), raggiungibili facilmente solo via mare, o altri luoghi caratteristici del golfo di Orosei. Noi abbiamo considerato la proposta troppo cara per il nostro viaggio low cost e anche molto”turistica”: parecchie agenzie diverse, ognuna con il suo chioschetto, proponevano la gita allo stesso prezzo e non era possibile contrattare... Abbiamo preferito visitare una grotta nei pressi, quella di Ispinigoli, davvero splendida, con una maestosa stalagmite di 30 metri, considerata la più alta d’Europa, nel centro di un antro molto ampio e profondo (ingresso 7.50 euro), e fare il bagno nelle acque smeraldine della spiaggia di Berchida, bella e accessibile. A Dorgali il Museo Archeologico (www.museoarcheologicodorgali.it )espone una bella collezione di vasi e manufatti antichi, dal IV-III secolo a.C. fino all’età romana e ad epoche più recenti, trovati nelle zone circostanti, presso resti nuragici, grotte, scavi nel territorio. Ma anche Orosei stessa offre spunti per visite interessanti: il centro, con i suoi vicoli e piazzette, è ricco di palazzi storici, da Sa Prejone Vetza – dove abbiamo visitato l’originale mostra dell’artista Giovanni Paddeu, di Mamoiada, autore di pregevoli opere in ferro – al Museo “Nanni Guiso” a Palatzos Vetzos, con una bellissima collezione di teatrini in miniatura e costumi del ‘700-‘800, al complesso monumentale di Sant’Antonio Abate, alle numerose chiese. Durante i festeggiamenti di san Giacomo abbiamo avuto il privilegio di assistere, nella piazza centrale, a una “Gara poetica”, antica tenzone in lingua sarda tra poeti, su un tema a loro proposto. Magnifico Bernardo Zizi, che a 89 anni ha ancora una voce dolce e possente al tempo stesso e riesce a sostenere egregiamente la gara, contro concorrenti molto più giovani. Da Orosei, prima di ritornare a Olbia per l’ultima notte e per prendere il traghetto del ritorno, ci siamo diretti verso Nuoro: una città particolare, arroccata, con un centro piuttosto elegante, pieno di negozi, caffè e ristorantini. La nostra meta era principalmente il MAN, il Museo di Arte contemporanea di Nuoro: la mostra che abbiamo visitato, molto valida, era “Amore e Rivoluzione”- Coppie di artisti dell’Avanguardia russa, con belle opere di Rodchenko, Stepanova, Larionov, Goncharova, Popova e Vesnin (fino al 1 ottobre 2017). Associato al MAN il Museo Francesco Ciusa, eccellente scultore nuorese (1883-1949), di cui sono esposte opere, soprattutto in gesso, che suscitano grandi emozioni, come Dolorante anima sarda (1910-11), La madre dell’ucciso (1907), Il bacio (1927), Il cainita (1913-14), La filatrice (1908-09). Indimenticabili! Ci siamo poi recati alla casa natale della poetessa e scrittrice Grazia Deledda (1871-1936), vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura nel 1926, a tutt’oggi unica donna italiana ad aver ricevuto tale riconoscimento (“per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale”). La casa è diventata il Museo Deleddiano (via G. Deledda 42, chiuso il lunedì) che conserva mobili e oggetti a lei appartenuti. E’ una bella occasione per ricordare la sua biografia, per riflettere sulla sua poetica e per leggere alcuni suoi versi o brani tratti da lettere, romanzi e opere teatrali. Scriveva: “Il nostro grande affanno è la lenta morte della vita. Perciò dobbiamo cercare di trattenere la vita, di intensificarla, dandole il più ricco contenuto possibile. Bisogna cercare di vivere la propria vita, come la nube sopra il mare”. Molto soddisfatti della nostra tappa nuorese, ci siamo spostati a Orgòsolo, a circa 15 km. Paese straordinario, un tempo associato al brigantaggio (basti pensare al film-documentario girato da Vittorio de Seta nel 1961, Banditi a Orgosolo, premiato alla Mostra di Venezia di quell’anno), ora invece attrazione turistica unica per le centinaia di murales che affrescano le case. Nel cuore della Barbagia del Supramonte, in un territorio affascinante dal punto di vista naturalistico e archeologico, con diversi siti nuragici e panorami stupendi, è una meta sicuramente da non mancare. I murales raccontano la storia locale ma anche episodi avvenuti in Italia e nel mondo, oppure riguardano personaggi famosi, politici, scienziati. Spesso sono veri manifesti di protesta e di lotta popolare, tutti interessanti ed evocativi. Un murale recente cita il poeta greco Konstantinos Kavafis (1863-1933)e la sua poesia “Itaca”: Quando parti per fare il viaggio verso Itaca, devi pregare che il cammino sia lungo, pieno di avventure, pieno di conoscenze……Tieni sempre nel cuore l’idea di Itaca. E ci sembra che questa esortazione sia proprio per noi. 31 agosto 2017, Anna Busca SPAGNA DEL NORD: GALIZIA E PAESI BASCHI di Giovanni Saccarello Questo viaggio comprende un po’ tutta la Spagna del nord, esclusa la zona pirenaica. L’itinerario è grosso modo il triangolo Madrid - Galizia (Santiago, Vigo) – Paesi Baschi (Bilbao) – Madrid, includendo Burgos. Volo e auto a nolo, più un volo interno Bilbao – Madrid; in tutto 14 giorni (13 notti) e 2.300 km in auto. Abbiamo dedicato un giorno a Madrid, che non era lo scopo del viaggio, ed il resto al giro vero e proprio. A tutte le altre città è stata dedicata solo mezza giornata, arrivando quasi sempre verso sera, per trovare il centro storico illuminato, quindi dedicare la mattina successiva alla visita, e ripartire dopo pranzo. A nessuno di noi è passato per la testa di fare a piedi neanche una minima parte del cammino di Santiago. Per farlo bisogna o aumentare i giorni o diminuire le tappe.Non descriverò qui i tesori d'arte: questo è compito delle guide; segnalerò più che altro le curiosità. In questo viaggio si può far mare, ma noi ci siamo riusciti a mala pena per colpa del tempo infame. Uno non lo crederebbe, in Spagna di Luglio; ma la costa atlantica non ha il clima del resto della Spagna: perciò qualche maglia non guasta. Subito una difficoltà a Madrid, con la prima colazione: nella zona della stazione del Principe Pío, alle 9 passate del mattino non c’è verso di trovare bar aperti, e non è domenica; ci si riesce finalmente alla stazione, ma ce ne sono voluti, di tentativi. Avendo già visto l’essenziale in città, andiamo all’Escorial, che ancora mi mancava, in autobus: prenderemo l'auto nel partire da Madrid, per risparmiare giorni e non avere intralci nei parcheggi. Al pomeriggio, visita del monastero delle “Descalzas Reales”, molto interessante: si entra a gruppi, con la guida. Questa parla solo spagnolo, ma lentamente e chiaro, tanto che si riesce a capire tutto o quasi. Peccato però l’attesa fuori, in coda sotto il sole, tanto che per cercare un po’ d’ombra si finisce per ingombrare la strada, sulla quale devono pure passare le auto. A Segovia meritano senz’altro l’acquedotto, l’Alcazar e la posizione complessiva della città; delude invece la facciata della cattedrale. Il bello di Avila sono la cattedrale ma più ancora le mura, che si vedono bene da un punto panoramico messo apposta all’uscita dalla città, sulla strada per Salamanca. Salamanca è notevole per la cattedrale, la plaza Mayor, vivacizzata dai numerosi universitari, e vari palazzi concentrati nel centro storico. Qualche particolare delle decorazioni esterne della cattedrale è moderno: a cercar bene, fra le figurine compare un astronauta! Lungo la strada si vedono sempre più frequenti nidi di cicogne; fiancheggiando un elettrodotto si può dire che ogni pilone sia coronato da un nido, con o senza abitanti. Forse proprio la presenza delle cicogne, e delle rane di cui sono ghiotte, è all’origine delle effigi di rana (si pronuncia “rrrana”) che si trovano dovunque a Salamanca, anche sull’antico cancello dell’università. Anche a León tutto è concentrato nel centro storico (in primis la cattedrale), tranne la chiesa di S. Marco, un po' periferica. L’interesse di Astorga si riduce quasi alla sola stravagante casa di Gaudí; val la pena di fermarsi più che altro perché è sulla strada, ma se si ha fretta la si può saltare. Si lascia la Castiglia e si passa in Galizia; il paesaggio si allontana sempre più dallo stereotipo spagnolo fatto di pianure assolate e aride, come finora, e diventa sempre più verde, come sapevo già essere per la Spagna settentrionale. Spariscono i nidi di cicogne. Anche il sole sparisce dietro le nuvole e tutto assume un’aria più centro-europea.A Lugo c’è da visitare essenzialmente la cattedrale e le mura medievali, tutte percorribili. Sulla strada per Santiago cominciano a vedersi sempre più frequenti gruppi di camminatori; prima non li si vedeva perché il tracciato dei vari cammini non passa per Lugo, né ovviamente per l’autostrada.La piazza della cattedrale è affollata di pellegrini; per di più è domenica e c’è la funzione più importante (“messa del pellegrino”). Questa cerimonia è interessante, anche per chi non bada all’aspetto strettamente religioso, per lo spettacolo del “botafumeiro”, l’incensiere gigante che viene fatto dondolare per il transetto appeso al soffitto della crociera: ci si mettono in otto a spingerlo. Non visitiamo Vigo ma facciamo il giro delle varie baie, le “Rías Bajas”. Questa costa si rivela un po’ deludente; è anche molto costruita. A Cangas abbiamo trovato i primi “horreos” (come in latino!), granai galiziani in pietra; di qui in poi li si vedrà spesso nelle campagne: sono casette in pietra che sembrano cappellette, anche perché il tetto è di solito ornato da una croce, ma hanno pareti forate, sono stretti, lunghi e soprelevati su una specie di palafitta per difenderli dai topi e dall’umidità . Bella anche la chiesetta di Hio, con deposizione dalla Croce antistante; anche questo è un motivo ricorrente in questa zona, come pure quello del crocefisso col pellegrino uno di spalle all’altro. Ci starebbe bene un po’ di mare, così ci fermiamo sulla spiaggia ad ovest del Cabo de Udra (prima di Bueu) per un bagno: fa caldo ma l’acqua è freddissima e la spiaggia quasi deserta. Diciamo che il tuffo nell’Atlantico aperto è stato fatto. Saltiamo anche Pontevedra e, sempre lungo il mare, entriamo nella penisola del Grove fino alla Toja, centri turistici famosi e celebrati, a sentir le guide, ma secondo noi niente di che; anche la chiesetta rivestita di conchiglie, tanto decantata, è roba moderna. A Noia è molto bella la vista sulla baia; grazie al fuso orario uguale all'Italia ed alla posizione molto più ad ovest, c'è un bel tramonto quando manca un quarto alle dieci! Continuando sempre lungo il mare, verso nord, il paesaggio è molto bello ed in certi punti ha un che di scandinavo, con molto verde e continue insenature. Peccato il tempo nuvoloso. Sosta a Muros, paese di pescatori interessante, con mercatino per le vie. Deviazione a Carnota per vedere l’”horreo” più grande che ci sia: è solo più lungo, ma largo come gli altri. Il luogo è bello, con una chiesetta accanto che ha lapidi funerarie (anche moderne!) sul sagrato. Il Cabo Finisterre, come previsto, è del tutto insignificante: l’unico suo merito è di essere il punto più occidentale della Spagna (quello più occidentale dell’Europa continentale è in Portogallo, poco sopra Lisbona). Per di più le nuvole basse riducono la vista del mare aperto; è una situazione simile al Capo Nord, in Norvegia: ci si va semplicemente per poi poter dire di esserci stati. Le guide reclamizzano una deviazione per vedere Malpica, che invece ci sembra una fregatura. Può andar bene se si fa mare, ma oggi non ne è il caso: piove e siamo sui 20°. La Coruña non ha grandi tesori d’arte, ma sono molto interessanti le verande in legno delle case che si affacciano sul porto: queste continue vetrate fanno il loro effetto, soprattutto in condizioni buone di luce, ed in effetti adesso c’è un bel tramonto, con bei riflessi sulle vetrate. Andiamo a vedere la Torre d’Ercole (antico faro), alla periferia della città: con questo tempaccio (non piove, ma ci sono nuvole basse) non dice niente. Ci fermiamo a Betanzos: paese molto bello e colorito; fascino medievale e poco turismo, che si vede anche nei prezzi. La costa è alta e dirupata; bei panorami sia verso il mare che all’interno. Bello il ponte presso Ribadeo, che attraversa una specie di fiordo (foce dell’Eo): qui si esce dalla Galizia e si entra nelle Asturie. Il paesaggio non cambia; cambiano gli “horreos”, che adesso sono di legno, e più rari. Deviazione per Cudillero, pure porto di pescatori; l’arrivo è brutto (c’è un gran porto moderno), ma girata una punta si presenta un bel paesino raccolto, con un’aria quasi da Cinque Terre. Ad Oviedo l’interesse è concentrato nel centro storico, attorno alla cattedrale; belle anche diverse case liberty qua e là. Una curiosità di tutt’altro genere che ci colpisce è un gigantesco centro congressi, nella zona ovest, con ali a sbalzo impressionanti, da vertigine. Diversi quartieri si presentano rinnovati e anche messi bene. A quanto pare è una città in piena espansione; ma molte città spagnole danno questa impressione. Una particolarità dei ristoranti asturiani è il sidro, ma non tanto in sé quanto per il modo in cui i camerieri lo versano: con una mano tengono il bicchiere più in basso possibile, e con l’altra la bottiglia più in alto possibile; il tutto con una posa statuaria, a gambe larghe e guardando altrove. Il getto fa quindi un bel po’ di strada ma non manca il bersaglio; però è inevitabile che ci siano schizzi per ogni dove. Può essere che tutto questo abbia il suo scopo (ossigenare bene il sidro?); ma di certo il risultato è che si rischia di scivolare passando vicino ai tavoli, visto lo stato del pavimento. Poi è la volta delle “iglesias prerromanicas” (si scrive proprio con 2 “erre”) nei dintorni. . Ed infine la chiesa di S. Julian de los Prados, molto bella; peccato che le passi di fianco l’autostrada e che la zona attorno, che doveva essere tutta campagna fino a non molto tempo fa, adesso sia uno squallido quartiere di periferia. In questa zona si potrebbe fare un’escursione sui monti “Picos de Europa” (parco naturale), ma quei nuvoloni bassi ci fanno cambiare idea. Santillana del Mar è bella ed anche molto turistica e quindi affollata, ma era prevedibile. Casette ben curate, in pietra e legno a vista, gerani alle finestre, tanto verde, prati smeraldini e pioggerella sottile: ma siamo in Spagna d’estate o in Trentino d’autunno? Il bello è che, a veder i telegiornali, sembra che il resto della Spagna stia andando a fuoco o quasi . La visita al chiostro della collegiata è particolare: al di là dell’interesse in sé, si scopre che si svolge non con una guida “umana”, bensì con una voce registrata che esce da altoparlanti nascosti, partendo ad orari fissi, e che spiega i vari dettagli ai visitatori. Niente male; ma cosa diranno quelli che abitano lì attorno, a sorbirsi tutta la tiritera ogni giorno? Santillana è famosa per le vicine grotte di Altamira; ma, come si sa, queste sono tabù: ci sarebbe il museo da visitare, ma nessuno di noi ne è interessato. Arriviamo a Santander dall’Avenida Reina Victoria, lungo il mare: ambiente belle époque, con casinò, eccetera. Di bagni, neanche a parlarne, tanto per cambiare. La cattedrale è l’unico interesse artistico; vi troviamo due matrimoni contemporanei, di cui uno nella cripta: lo spettacolo in realtà è nelle invitate che in queste occasioni hanno l’abitudine di indossare abiti da gran sera in pieno giorno. Uno dei due matrimoni comprende anche uno spettacolo folkloristico con danze tradizionali. Da Santander a Burgos si scavalcano i monti Cantabrici e si rientra in Castiglia. Riprende il clima estivo “classico” della Spagna: sole e caldo; però tira vento: sarà un riflesso del maltempo sull’altro versante. Nell'interno della cattedrale di Burgos è curioso lo show del Papamoscas, un automa associato all'orologio, che apre la bocca al battere delle ore, e quindi “mangia le mosche”; ma vediamo alcuni turisti che lo applaudono, cosa che ci pare fuori luogo. La giornata ventosa rende l’aria tersa e ci sono ottimi colori al tramonto. Il castello in cima alla collina è un rudere; vale solo per il panorama, ma comprende dei sotterranei che si possono visitare con guida; c’è comunque un museo che ne racconta la storia. Il monastero de las Huelgas, dove sono sepolti i bambini della famiglia reale, in più punti sembra proprio una moschea. Ed eccoci nei paesi baschi: il paesaggio è di nuovo boscoso, il clima è fresco; i toponimi sono bizzarri, la lingua locale è incomprensibile, ma tutti i cartelli sono bilingui. Bilbao è una città rinata dopo l’abbandono delle industrie negli anni ’70-’80, e di certo gran parte del merito va al Guggenheim, che ora è l’attrattiva principale . Il guaio è che sono “rinati” anche i prezzi. Ancora difficoltà coi bar per la prima colazione, come a Madrid. In mattinata, liberi tutti: chi va al museo, chi a spasso, chi a far compere. Al pomeriggio, visto il bel tempo, si decide di far mare: lo cerchiamo, in auto ovviamente, al di là di Getxo. Si riesce a parcheggiare ragionevolmente vicino alla spiaggia, che non è troppo affollata. Una cosa interessante nei dintorni è il “ponte trasbordatore” di Portugalete: credo che sia l’unico del genere rimasto in Europa. Ormai, più che servire al suo scopo (portare uomini e cose al di là del fiume e lasciar passare anche le navi con alberature alte), è un monumento a se stesso; ma è anche un buon punto panoramico. Io però l’avevo già visto; agli altri non interessa e così non ci andiamo. Il rientro in Italia si nota subito. All'aeroporto, la ricerca dell’autobus per Milano è un po’ problematica, data l’ora tarda; nessuno sa bene quale autobus parte e quando, e ciascun interpellato risponde con la sua teoria (la stessa situazione sperimentata mille e mille volte nelle nostre ferrovie). Ci sarebbe qualche reclamo da fare alla Spagna (orari per la prima colazione, qualche cartello stradale poco chiaro, ecc.); ma anche diversi complimenti: ottima organizzazione dei servizi, strade ottime, quasi mai ingorghi, città in ripresa. Avevo visto la Spagna per la prima volta nell’81: era trent’anni indietro; oggi siamo noi che siamo indietro. Le cose che funzionano male si vedono subito, e quelle che vanno bene no; ciò vuol dire che tutto ciò che non ci ha colpito per il malfunzionamento si può mettere fra i complimenti. 24 settembre 2017 Giovanni Saccarello di Anna Busca Se si ha a disposizione un weekend “lungo” o comunque almeno quattro giorni, e si desidera un’immersione nella bellezza di luoghi fiabeschi non lontani da Milano, si può scegliere il tour dei castelli bavaresi di Ludwig II, perfetto per una coppia di innamorati ma anche adattissimo a famiglie con bambini e perfino agli amanti di Wagner. Settembre può essere il mese ideale. Il bellissimo Ludwig II, dall’alta statura e dall’aspetto davvero aristocratico, figlio del re Maximilian II e della regina Maria di Prussia, nato nel 1845 e divenuto monarca a soli diciannove anni dopo la morte del padre, ebbe una vita travagliata: insofferente alle regole di corte, impossibilitato a manifestare apertamente la sua omosessualità (ma in grado di rompere, suscitando grande scalpore, un fidanzamento imposto con la cugina Sophie, sorella dell’amica principessa Sissi), di profonda cultura e sensibilità, che lo isolavano dal suo ambiente perché incompreso, generoso mecenate di Richard Wagner, che quasi idolatrava da quando era appena sedicenne, nostalgico del passato glorioso delle monarchie assolute europee ma considerato incapace di governare… Morì annegato nel lago di Starnberg: aveva quarant’anni, era stato appena deposto perché considerato pazzo (come il fratello Otto), e forse non si trattò di un suicidio né di un incidente. E sulla sua morte permane a tutt’oggi il mistero: un enigma, come proprio lui voleva apertamente essere. Di lui ci restano testimonianze affascinanti: e sono proprio alcuni castelli, frutto del suo immaginario storico-artistico, che lasciano stupefatti per la ricchezza degli arredi e delle decorazioni, e soprattutto perché rievocano l’originalità del suo pensiero e la sua vita davvero unica, che ispirò anche a Luchino Visconti il magnifico film del 1973, “Ludwig”, con Helmut Berger e Romy Schneider, vincitore del David di Donatello. Partendo da Milano in mattinata si raggiunge comodamente nel pomeriggio, attraversando Svizzera, Liechtenstein e per breve tratto anche l’Austria, la città di Füssen im Allg ӓu, sul fiume Lech. Noi abbiamo alloggiato al Ruchti’s Hotel und Restaurant di Alatseestrasse 38, www.hotel-ruchti.de , immerso nel verde, a pochi minuti a piedi dal centro storico, dominato da un bel castello affrescato, antica residenza dei principi-vescovi di Augsburg. Bellissima anche la chiesa barocca di S. Mang con il monastero annesso; nell’isola pedonale si possono ammirare palazzi storici, piazzette, fontane, campanili; camminando tra i vicoli si ripercorre il tessuto urbano del borgo medioevale. Füssen è all’inizio della Romantische Straße, un itinerario tra i più amati della Germania, che si conclude a Würzburg, a quasi 400 km di distanza, attraversando paesaggi e città spesso dichiarati dall’Unesco Patrimoni culturali dell’umanità. Füssen è a soli 5 km dai primi due castelli che visiteremo: Hohenschwangau e il più famoso Neuschwanstein, praticamente di fronte, a breve distanza tra i boschi. Si lascia l’auto in uno dei quattro grandi parcheggi a pagamento e ci si avvia ai Ticket Center. Noi abbiamo trovato, alle 9.30 circa, già una coda interminabile di turisti: il mese di agosto è certamente il periodo di maggior affollamento! Solo qui si vendono i biglietti per la visita; è comunque possibile, con un supplemento di 1.80 euro, prenotarli on line un paio di giorni prima e avere così uno sportello riservato dove la coda è molto più ridotta. Abbiamo optato – esistono diverse possibilità -per il biglietto combinato della visita a entrambi i castelli; sul ticket è stampigliato l’orario, perché è obbligatoria la visita guidata (con audioguida o guida anche in italiano) in gruppi di 15-20 persone circa e si può dunque entrare, obliterando il biglietto, solo quando nel display all’ingresso compare l’ora e il numero del gruppo cui si è stati assegnati. Siamo riusciti a visitare Hohenschwangau in mattinata e Neuschwanstein nel primo pomeriggio. Ogni visita dura 35-40 minuti. Sono purtroppo vietate le fotografie all’interno. Abbiamo raggiunto Hohenschwangau a piedi, con una breve passeggiata nel verde, vicino a un lago dove si possono osservare anatre e cigni; il paesaggio intorno è montuoso, con vaste faggete e abetaie, di notevole fascino. Il castello, dove Ludwig trascorse infanzia e adolescenza, è piuttosto imponente e il suo colore giallo spicca tra la vegetazione; ha un arredo originale in puro stile bavarese, con stanze dalle pareti affrescate e colorate in modo vivace; divani rossi, tappeti, stucchi, ori, tendaggi verde smeraldo, lampadari di cristallo; gli ambienti sono luminosi e accoglienti. Da qui il giovane Ludwig poteva, con un cannocchiale, seguire i lavori di costruzione dell’altro castello, quello “nuovo” da lui fortemente voluto e sognato, e annunciato a Wagner con una lettera del maggio 1868 in cui manifestava il suo desiderio di far sorgere, in un luogo “dei più belli che si possano trovare, sacro e inavvicinabile” , “nello stile autentico delle antiche fortezze dei cavalieri tedeschi”, un castello degno del grande compositore, che vi avrebbe ritrovato reminiscenze del Tannhӓuser e del Lohengrin. Neuschwanstein si raggiunge a piedi con un percorso più lungo rispetto al precedente, un po’ in salita; chi teme la fatica può utilizzare, a pagamento, un bus-navetta o una più romantica carrozza trainata da una pariglia di robusti cavalli. Noi abbiamo scelto la passeggiata nel bosco, in realtà molto rilassante e piacevole. Si passa anche davanti a qualche caffè, sotto il castello, dove si possono gustare all’aperto squisiti piatti bavaresi come le classiche salsicce bianche (Weißwurst) o Würstel mit Kraut, accompagnati da ottima birra. Un viaggio in Baviera dà sempre anche grandi soddisfazioni gastronomiche! Il castello ideato da Ludwig non ha nulla di kitsch, come a volte sembra di intuire da alcune descrizioni. E’ vero che è stato fonte d’ispirazione per gli architetti di Disneyland, ed alcune immagini lo fanno apparire come un improbabile castello delle fate, ma in realtà è un sogno fattosi pietra, la meravigliosa visione di un giovanissimo re di metà Ottocento, immerso nella musica di Wagner e nella mitologia nordica, nella poesia medioevale e nella religione cristiana, in un mix quasi allucinatorio e sicuramente fantastico. Un capolavoro dell’eclettismo. Indimenticabile la sala del trono, una sorta di basilica con un’abside in cui, al posto dell’altare, doveva appunto essere collocato il trono, mai realizzato a causa della morte precoce di Ludwig. Si evince che si riteneva monarca per grazia divina, una sorta di ponte tra terra e cielo. La camera da letto, le cui pareti hanno affreschi ispirati a Tristano e Isotta, è davvero sontuosa. Ogni ambiente lascia il visitatore stupefatto. Si attraversa perfino una piccola grotta artificiale illuminata con suggestivi effetti cromatici, che rievoca la scenografia del Tannhaüser. Si esce dal castello con la sensazione di essere entrati in un luogo magico ed evocatore, di fatto nello spirito di Ludwig, che tuttavia vide l’edificio, mai concluso, fondamentalmente solo come cantiere in costruzione. L’emblema di un’illusione, di un sogno spezzato dalla sua tragica morte. Per godere di una magnifica vista del castello e del panorama circostante si può raggiungere, con una bellissima passeggiata nel bosco, il Marien-brücke, uno stretto ponte in legno e acciaio che scavalca un profondo burrone, che non è altro che la valle del torrente Pӧllat. Inutile dire che occorre aspettare un po’ in coda, vista la folla di visitatori! Ci siamo quindi spostati in auto, attraverso paesaggi incantevoli, in una seconda cittadina bavarese, la splendida Oberammergau, alloggiando presso il grazioso Hotel Garni Antonia, in Freikorpsstrasse 5 (www.hotel-antonia.com ), gestito dalla gentilissima Erika Kühl. Oberammergau è famosa in Germania per le stupende case affrescate nel ‘700, con soggetti per lo più religiosi: la più bella è sicuramente la Casa di Pilato, ma numerose sono quelle degne di ammirazione che si incontrano passeggiando per le vie del centro storico. Ogni dieci anni (prossimamente nel 2020) si celebra qui la Passione di Cristo, della durata di quasi otto ore, che coinvolge un migliaio di abitanti: nel Teatro della Passione appositamente costruito viene illustrato una sorta di Calvario vivente, che richiama moltissimi turisti. La manifestazione è storica ed è legata a un evento considerato “miracoloso”: nella seconda metà del ‘600 il paese fu uno dei pochissimi villaggi a non essere coinvolto in una terribile epidemia di peste, il che fu ovviamente interpretato all’epoca come una grazia divina! La chiesa principale ha un elegantissimo interno barocco. Oberammergau è nota anche per essere la patria dei migliori intagliatori di legno tedeschi: nelle vetrine dei negozi di artigianato spiccano opere straordinarie, soprattutto statue del presepio, ma anche di animali e di altri soggetti. Chi vuole un orologio a cucù ha solo l’imbarazzo della scelta (ma alcuni raggiungono prezzi proibitivi…). Qui ci si trova a pochi chilometri dal castello di Linderhof, l’unico realizzato in modo completo da Ludwig (fu terminato nel 1878). Il re amava questi luoghi, tra montagne, laghi, torrenti e foreste, e vi soggiornò a lungo, uscendo spesso in carrozza o a piedi anche di notte, in inverno incurante della neve e del freddo. Questa volta il modello è francese: un magnifico edificio bianco, simile a un castello della Loira, immerso in un grande parco, con fontane, scalinate, giardini a terrazze, sentieri, padiglioni… Parcheggiata l’auto negli spazi predisposti, sempre a pagamento, dopo una coda (breve, questa volta!) alla biglietteria, ci si avvia verso l’ingresso. Anche per questo castello è obbligatoria la visita guidata – si può scegliere in lingua italiana- in gruppo. L’arredo è ricchissimo, decorazioni, stucchi e dipinti sono preziosi: il trionfo del rococò più raffinato. Ovunque richiami alla mitologia, alla storia antica, alle monarchie. Semplicemente meravigliosa la Sala degli specchi, dove la propria immagine può essere riflessa all’infinito e gli spazi sono dilatati senza limiti, con effetti grandiosi; ma anche la Sala delle udienze e la camera da letto del re, vastissima, sono splendide. Deliziose alcune costruzioni nel parco, che in qualche parte è una vera foresta di altissimi abeti: il Chiosco moresco, la Capanna di Hunding (realizzata secondo la scenografia del primo atto della Valchiria di Wagner), il vicino Eremo di Gurnemanz (foto), ispirato al Parsifal, la Casa marocchina all’entrata. La Grotta di Venere, associata al Tannhӓuser, addirittura con un lago sotterraneo tra stalattiti e stalagmiti artificiali illuminate da luci policrome, era purtroppo chiusa per lavori di restauro e non siamo riusciti a visitarla. Avendo più giorni si può chiudere il tour dei castelli di Ludwig recandosi più ad est ad Herrenchiemsee, sull’isola al centro del lago Chiemsee, ispirato alla reggia di Versailles. Noi abbiamo rinviato la visita ad un altro viaggio, non disponendo del tempo necessario. Magari l’abbineremo a una tappa sul lago Starnberg, presso il castello di Berg (proprietà privata, non visitabile) dove Ludwig trascorse le sue ultime ore. Sul luogo in cui furono ritrovati i corpi del re e del suo medico personale, il dottor von Gudden, anche lui misteriosamente annegato nel lago, è stata eretta una cappella votiva e sorge un’alta croce di pietra. Nella piccola Rosensinsel, l’Isola delle Rose, spesso si incontravano Ludwig e la cugina prediletta, Sissi. Qui lei era solita lasciare poesie o lettere, alle quali Ludwig rispondeva con piacere. In una di queste, Sissi si considerava un gabbiano, e chiamava il cugino “aquila”. E Ludwig le aveva risposto con questi versi: Al nido dell’aquila, dalla remota spiaggia/è arrivato il saluto del gabbiano/portando con lieve battito d’ali/il ricordo dei tempi lontani (….)/ Verso la cima del monte l’Aquila fa ritorno (…)Milano, 29 agosto 2017 Anna Busca GENNAIO 2017 Si può festeggiare il nuovo anno anche dedicando tre giorni alla bellezza dell’arte italiana: un tour tanto breve quanto ricco nella zona del ferrarese e del padovano. Una vera immersione nella raffinatezza, una “boccata d’ossigeno” per occhi e cervello. Prima tappa Cento, paese natale di Francesco Barbieri, più noto come il Guercino (1591-1666). Purtroppo il sisma del maggio 2012 ha lasciato il segno: la Pinacoteca e la Chiesa del Rosario sono tuttora inagibili, sono ancora evidenti i danni ad alcuni edifici, anche se i lavori di restauro proseguono. I dipinti del Guercino, dopo essere stati esposti in numerose mostre in giro per il mondo (anche in Giappone) sono ora temporaneamente collocati nella chiesa di San Lorenzo, aperta solo il venerdì, il sabato e la domenica (per aperture in altri orari tel. 051.6843334, o consultare www.comune.cento.fe.it ). Si possono ammirare l’Assunta (1622), appesa in alto nella navata, straordinariamente prospettica; Cristo risorto appare alla Vergine (1629), il Miracolo di San Carlo Borromeo (1614) e altri splendidi capolavori. In fondo alla via principale, corso del Guercino, dove si tiene un affollato mercato settimanale il giovedì mattina, sorge la trecentesca Rocca di Cento, sede della biblioteca civica, visitabile. Interessanti anche alcuni palazzi ed edifici storici, come il Palazzo del Governatore. Da Cento a Ferrara si percorre in auto una quarantina di chilometri: la città estense è sempre una meraviglia. Occorre ricordare –per evitare multe salate! - che se si alloggia in un hotel del centro storico si hanno agevolazioni per l’ingresso in ZTL e la sosta, a patto che l’albergatore segnali alla Polizia municipale, entro 48 ore dall’arrivo, la targa della vettura, che così entra nella cosiddetta white list (per informazioni http://servizi.comune.fe.it/4336/clienti-hotel-e-strutture-ricettive-collocate-in-ztl ). Fino al 29 gennaio 2017 si può visitare, nel magnifico Palazzo dei Diamanti, la bellissima mostra “Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi” (informazioni e prenotazioni 0532.244949, oppure www.palazzodiamanti.it ). Un percorso, con audioguida compresa nel biglietto, tra opere pittoriche, sculture, testi antichi, oggetti (splendido l’Olifante detto Corno d’Orlando, dell’XI secolo) dell’universo ariostesco, in occasione del quinto centenario della prima edizione del poema (1516). Capolavori di Raffaello (“Ritratto di Tommaso Inghirami detto Fedra”),di Giorgione (“Ritratto di guerriero con scudiero detto Gattamelata”), di Mantegna (“Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù”), di Tiziano (“Il baccanale degli Andrii”), portano il visitatore ad immergersi in splendide immagini, evocative delle figure ariostesche di cavalieri eroici e meravigliose fanciulle, di paesaggi mitologici, di scene dell’Orlando. Usciti dalla mostra, davvero imperdibile, si ha solo l’imbarazzo della scelta. Si possono seguire gli itinerari suggeriti dalla mappa turistica della città: il centro medioevale e il ghetto ebraico, oppure l’addizione rinascimentale, dimore e chiese rinascimentali… Dipende soprattutto dal momento della giornata e dal tempo meteorologico. Nel tardo pomeriggio si può anche scegliere semplicemente di passeggiare intorno al Castello Estense (che ospita, fino al 4 giugno, una mostra delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea dedicata a Previati, Boldini, De Pisis) e al Palazzo del Municipio, visitando la bella Cattedrale, la piazza Trento e Trieste e le vie adiacenti. Una buona cena a base di cappellacci di zucca (per esempio al ristorante “Il gatto bianco” di via Mayr, con buon rapporto qualità/prezzo) può concludere piacevolmente il giro. La mattina successiva, prima di lasciare Ferrara, si riesce a visitare Palazzo Schifanoia; il ciclo di affreschi quattrocenteschi che decora il famoso Salone dei Mesi è di rara bellezza e grande fascino. [Hotel suggerito a Ferrara: Albergo San Romano, via S.Romano 120, tel.0532-760170, www.hotelsanromano.it ) Da Ferrara ci si sposta a Stra, in provincia di Venezia (circa ottanta chilometri, si viaggia sull’autostrada A13, con bella vista, sulla sinistra, dei rilievi vulcanici dei Colli Euganei): la meta è ora Villa Pisani (www.villapisani.beniculturali.it ), la più bella tra le ville venete della Riviera del Brenta, che non sfigura affatto se messa a confronto con un castello della Loira. Immenso parco, con serre, fontane, vasche, una collina-ghiacciaia, un boschetto, un magnifico labirinto di siepi. La villa fu costruita dalla ricchissima famiglia patrizia dei Pisani, che diedero un doge a Venezia, e fu terminata nel Settecento; subì varie vicissitudini, fu venduta nel 1807 a Napoleone, allora re d’Italia, che poi la cedette al figliastro Eugenio de Beauharnais. Dopo la disfatta di Waterloo del 1815 la villa passò agli Asburgo e divenne amatissimo luogo di villeggiatura dell’imperatrice d’Austria, che vi ospitò i reali di Spagna, di Napoli, di Grecia, perfino lo zar di Russia Alessandro I, mantenendo dunque sale e giardini, dove si susseguivano feste e danze, al massimo splendore. Quando il Veneto fu annesso al Regno d’Italia nel 1866 la villa diventò proprietà dello Stato e non dei Savoia; cessò il suo ruolo di rappresentanza e si trasformò in un museo. Un museo nazionale preziosissimo: la sala da ballo con il soffitto affrescato da Tiepolo (“La Gloria della famiglia Pisani”) è stupenda; l’appartamento napoleonico, con parti dell’arredo originali, e le altre sale visitabili, una trentina, contengono decori e pitture di grande eleganza e raffinatezza. Non stupisce apprendere che la villa veniva spesso visitata da D’Annunzio e Wagner!Lasciata Villa Pisani, si raggiunge in circa mezz’ora la splendida Padova. A Palazzo Zabarella (www.zabarella.it )si trova un’altra interessante mostra aperta fino al 29 gennaio: questa volta il protagonista è il pittore Federico Zandomeneghi, di cui si celebra il centenario della morte, avvenuta a Parigi nel 1917. Nato a Venezia nel 1841, figlio e nipote di scultori di fama, Zandomeneghi fu l’unico italiano a raggiungere nella capitale francese, a trentatrè anni, il gruppo degli Impressionisti, diventando amico di Degas, Pissarro e Renoir, dopo un periodo trascorso a Firenze, dove aveva frequentato i Macchiaioli. La sua pittura, fondata su un eccezionale talento naturale stimolato dagli ambienti artistici in cui aveva vissuto, mostra uno stile particolare; i soggetti sono molto spesso le donne, ritratte in momenti della loro quotidianità, con espressioni assorte, o divertite, o malinconiche, mai banalizzate o superficiali, anzi colte con grande sensibilità e attenzione. A Padova le mete da visitare sono dietro ogni angolo, e in un soggiorno così breve è opportuno selezionarle, anche in anticipo. Per chi non l’avesse mai vista, sicuramente è imperdibile la Cappella degli Scrovegni, affrescata da Giotto (1303-1305); è comunque obbligatoria la prevendita del biglietto, fino a un giorno prima della visita (www.cappelladegliscrovegni.it ). Imponente la basilica di Sant’Antonio, con il grande Prato della Valle vicino, magnifico il Palazzo della Ragione, bellissima anche la basilica di santa Giustina , e il duomo, il Battistero…Se si vuole dare alla visita anche un “taglio” scientifico, nessun problema: qui insegnò Galileo, e la sua cattedra di legno è ancora visibile nell’antica sede dell’Università, il Palazzo Bo, che conserva un magnifico Teatro Anatomico. Sempre a Padova si laureò in Medicina Andrea Vesalio, autore del De corporis humani fabrica (1543), cui il Musme (Museo di Storia della Medicina, www.musme.it ) dedica la sua esposizione “Il corpo scoperto: l’anatomia da Vesalio al futuro”, fino all’8 gennaio. [Hotel suggerito a Padova: Hotel Igea, via Ospedale 87, tel. 049-8750577, www.hoteligea.it )Ultima tappa proposta, raggiungibile il terzo (e ultimo) giorno del tour, è la Villa Contarini, a Piazzola sul Brenta - nei luoghi che diedero i natali ad Andrea Mantegna - considerata la più maestosa e scenografica delle ville nobiliari del padovano (www.villacontarini.eu ). I Contarini erano una famiglia potentissima a Venezia: ben otto dogi e quarantotto procuratori tra i suoi membri. La villa era la loro casa “di campagna”, lussuosa residenza estiva, costruita nel XVI secolo, su disegno del Palladio, e ampliata successivamente con edifici laterali per accogliere i numerosi ospiti. La visita alle sale è possibile solo con la guida, mentre nel parco, molto vasto, con un enorme prato all’inglese, un lago e canali, si può passeggiare a piacimento. Abbandonata nell’Ottocento, depredata dei suoi arredi, usata come magazzino o deposito di legname, invasa e occupata da militari durante la Seconda Guerra Mondiale, la villa rischiava di diventare un edificio fatiscente, destinato alla distruzione. Fu un medico, il prof. Giordano Emilio Ghirardi, a occuparsene, ad acquistarla nel 1969 e a trovare fondi e appoggi per il restauro. Dal 2005 appartiene alla Regione Veneto, che dovrebbe farne un fiore all’occhiello per il turismo! E’ invece a mio parere ancora poco pubblicizzata, anche se aperta a ricevimenti e convention, che in genere si svolgono nella bella Galleria delle Conchiglie, a pianterreno. Durante la visita alla villa si attraversano magnifiche sale: al primo piano la sala dell’Altalena, delle arti e delle scienze, dei Baccanali, del mosaico…La sala da ballo o degli stucchi, bellissima, la scala dei Giganti…Al secondo piano la biblioteca, ricca di libri antichi, la sala degli specchi con uno straordinario effetto ottico, il salottino dei pastelli, raffinatissimo. Ma è al terzo piano che si scopre un “segreto”: durante le feste, ma anche in altre occasioni, si diffondeva la musica suonata da orchestre collocate qui, in una sala a forma di chitarra rovesciata, tutta rivestita di legno, dall’acustica perfetta, che fungeva da “amplificatore”. Il suono riflesso dalle pareti era convogliato in una grande apertura ottagonale al centro della sala e “scendeva” ai piani sottostanti, fino alla sala dell’Auditorio e oltre…Una soluzione davvero geniale: si potevano dunque ascoltare note o voci senza vedere alcuno strumento o cantante, quasi una magia! E magico questo luogo lo è davvero. Indimenticabile. Milano, 4 gennaio 2017 Anna Busca
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