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NOVEMBRE 2024 Andalusia fuori stagione (per noi) N.B. Mentre scrivo è in corso l'alluvione di Valencia. Non siamo stati da quelle parti (non è Andalusia), e non abbiamo trovato piogge se non il penultimo giorno; il resto, bel tempo, specie all'inizio. Naturalmente niente faceva pensare alla catastrofe che si preparava. Ero già stato in Andalusia un paio di volte una quarantina d'anni fa; allora vi si andava classicamente d'estate, specie per far mare: la Spagna, reduce dalla dittatura, era allora un paese arretrato e costava poco. Ma in quei luoghi l'estate è feroce e le visite all'interno si pagano: ricordo i 43° a Cordova, e non andava ancora di moda il riscaldamento globale; di notte comunque la temperatura scendeva: 38°! Abbiamo perciò pensato che fosse meglio andarci fuori stagione (viva la pensione!), in ottobre, scartando la primavera per via delle varie cerimonie a Siviglia, che costituiscono un richiamo tale che le guide stesse mettono in guardia il turista: i prezzi vanno alle stelle e bisogna prenotare aerei, alberghi e visite con largo anticipo. Ma arrivati là, si è scoperto che la stagione è bassa solo in luglio, agosto e gennaio! In tutti gli altri mesi, almeno nelle grandi città, c'è il pieno. Sapevamo già di dover prenotare l'Alhambra e l'abbiamo fatto, assieme ad aerei, auto ed alberghi, prima di partire; ma a Siviglia l'Alcázar era esaurito fino a metà della settimana dopo; e la parte più preziosa dell'Alhambra (che è un biglietto a parte: altra scoperta) fino a tutto novembre! Per fortuna avevo previsto, oltre alle prime tre, un'ultima notte a Siviglia prima del ritorno, per cui rimaneva la mattina che abbiamo potuto sfruttare; e così si è risolto il primo problema. Ma per l'altro non c'è stato niente da fare. Senz'altro dovevamo informarci meglio. Sempre convinti dello scarso turismo, siamo tornati alla formula dell'auto a nolo più aereo a Siviglia, ritenuta il clou del viaggio. Ma da Milano ci sono pochi aerei: ci arriva solo la Ryanair; le altre compagnie van tutte a Malaga. In compenso non abbiamo avuto problemi di traffico; abbiamo visto dei begli ingorghi, ma ne siamo sempre stati fuori. Strade sempre ottime, anche quelle secondarie. E nelle città, dove avevamo preso solo alberghi con garage, il traffico era sempre decente e nei centri storici chi vi aveva preso l'albergo poteva entrarci con l'auto (dico nel centro, non nell'albergo). Pareva d'esser tornati in piena estate, sia per la gente che c'era sia per il clima, almeno nei primi giorni. Come nelle mie altre relazioni, non descriverò qui i tesori d'arte: questo è compito delle guide; dirò solo delle impressioni e delle curiosità che mi hanno colpito. Siamo partiti da Orio al Serio sotto una pioggia continua e arrivati sotto un bel sole. Passati dalla tenuta invernale a quella estiva, abbiamo iniziato la visita di Siviglia dalle Setas (“i funghi”), una recente e bizzarra struttura in legno a forma di fungo, alta non più delle case attorno per non sfigurare il paesaggio, ma che permette lo stesso di passeggiare con un bel panorama sul centro storico, come trovarsi sui tetti. . Le case sono per lo più bianche con fregi giallo-ocra; sullo sfondo di questi colori-base si stagliano punte cromatiche diverse, balconi fioriti, tegole multicolori, piastrelle e ceramiche (azulejos) per lo più sul blu. Molti androni ed i patii retrostanti sono incantevoli. Una curiosità che non ricordavo sono le numerose verandine sulle facciate, a copertura dei balconi. Troveremo questa scenografia anche nelle altre città. La mattina dopo inizia con un giro al caratteristico mercato coperto di Triana, il sobborgo oltre il Guadalquivir dove abbiamo l'albergo; il mercato è presso il ponte Isabel II che porta al centro storico. L'enorme cattedrale gotica contiene la tomba di Colombo, oltre al normale apparato: cappelle laterali, stalli del coro, organo, altare. All'esterno, un bel chiostro alberato; il tutto è dominato dalla colossale torre della Giralda, il più grande minareto in origine, con il cima la statua girevole del Giraldillo. Per chi vuol salire il panorama è certo più vasto che dai funghi. Lungo il fiume spicca la Plaza de Toros, una delle più antiche, con edifici incastrati abilmente attorno al corpo circolare. Con mia sorpresa è ancora in funzione: avevo visto altre strutture del genere, a Barcellona e nelle città del nord, convertite ad altri usi essendo vietate le corride; da queste parti a quanto pare continua la tradizione, giusta o sbagliata che sia. Belli i vasti parchi a sud, con la semicircolare e scenografica Plaza de España. Un giro in battello sul fiume conclude la giornata; però non ci sono vedute spettacolari. Un'escursione ci porta a Cadice, che occupa una penisola e quindi ha l'Atlantico su tre lati. L'aspetto medio del centro storico richiama quello sivigliano, direi con una maggior percentuale di bianco. È sabato e ci sono matrimoni a raffica: uno nella cattedrale vecchia, con strascico, damigelle che lo sostengono ed altre messinscene che credevo sorpassate; altri escono dal municipio, uno via l'altro. Al ritorno ci fermiamo a Jerez de la Frontera, che è celebre per i vini: di lì viene quello che noi conosciamo come “Xeres”, mentre è “Sherry” per gli Inglesi che ne hanno sviluppato il sistema di vinificazione, un po' come è successo per vicende analoghe anche col Porto, il Madera, e da noi il Marsala. Ma non essendo intenditori non abbiamo visitato bodegas (meglio anche evitare assaggi, dovendo guidare), per dedicarci al centro storico e alla chiesa di S. Miguel, dalla complicata facciata tutt'uno col campanile. Nei dintorni si vedono i vigneti in un paesaggio appena ondulato; e fa specie che si trovino in piano o quasi. San Lúcar de Barrameda, alla foce del Guadalquivir, è l'antico porto di Siviglia, punto di partenza dei viaggi di Colombo e Magellano. Oggi è un centro balneare un po' anonimo, ma ha un bel quartiere antico in alto. Una caratteristica dei paesi da queste parti è lo stacco netto fra abitati e campagna: le case sono fitte e di colpo finiscono, passando ai campi non come da noi per gradi e con case via via più sparse. Anche questo, oltre alla fisionomia generale del paesaggio, per lo più colline aride, ricorda un po' il nostro meridione. In viaggio per Cordova, nella zona di Luisiana si vede una torre moderna circondata da uno strano effetto di raggi luminosi attorno, come una nebbia luccicante. Mi ricordo di un effetto simile visto, su scala minore, nella zona di Almeria nell'81 e capisco che è una centrale ad energia solare; se si passa in aereo non si può non notare il cerchio di specchi sotto, invisibile dalla pianura. Vorrei fermarmi a veder bene, ma non ci sono piazzole. È la “Germasolar”, l'ho scoperto poi. A Cordova l'albergo si trova in pieno centro, in un vicoletto tale da non poterci passare in auto; raggiuntolo a piedi si scopre che è una dépendance e non c'è nessuno. All'albergo-madre mi danno le istruzioni con un messaggio sul telefonino, naturalmente in spagnolo: battere il codice segreto sul citofono esterno, entrare nel patio dove ci sono le cassette, ognuna con la chiave delle camere, pure loro col codice; mettere il codice anche qui, bajar la pestaña negra e prender la chiave. Ma la levetta nera non ne vuol sapere di abbassarsi; proviamo in tutti i modi, niente: la pestaña è irremovibile. Nemmeno l'addetta della direzione, chiamata in aiuto, riesce a smuoverla, e neanche quelle delle altre cassette. Finché due o tre vigorosi cazzotti (noi non avevamo osato) risolvono la situazione. Forse la pestaña si chiama così perché funziona solo se viene pestata di santa ragione (in realtà vuol dire “ciglio”). La dépendance è un delizioso palazzetto antico con patio caratteristico, e ci siamo solo noi. Tutto il centro della città è un dedalo di viuzze e vicoletti, e per girarlo non serve farsi un itinerario preciso: è bello andare a zonzo, e sono gli scorci continui a venirti incontro. Anche qui i colpi di colore sono quelli consueti. Non ci sono tesori d'arte eclatanti, tranne la colossale e caratteristica cattedrale, che era una moschea, la seconda al mondo per grandezza dopo quella della Mecca. L'interno, che non assomiglia a nessuna chiesa come siamo abituati a vedere, è una vera foresta di 850 colonnine con archetti, che dividono l'ambiente in 36 (trentasei) navate in un senso e 19 più larghe nell'altro; il tutto con capitelli e decorazioni arabeggianti. Un soffitto relativamente basso e decorato, per lo più a cassettoni, allontana ancora di più l'immagine della cattedrale classica. Solo la zona centrale è stata rimaneggiata nelle forme consuete. Nei dintorni ci sarebbero le rovine del palazzo arabo di Medina Azahara, ma finisce che non ci andiamo. Viaggiando verso Jaén il paesaggio è sempre più mosso e gli uliveti si infittiscono; la scena non è più arida. Jaén si presenta distesa in pendenza sotto un'altura rocciosa coronata dall'immancabile castello, in uno scenario di cuspidi rocciose. Peccato che il quadro sia un po' rovinato dai casoni moderni; anche questo richiama il nostro meridione. La maggior attrattiva è la grande cattedrale barocca, dove si può anche percorrere il deambulatorio soprelevato che permette insolite viste sull'interno dall'alto. Baeza domina la valle verde di ulivi. Ci sono un paio di palazzi e chiese notevoli, e il beige della loro pietra si alterna col bianco delle case; le strade della cittadina, forse per l'ora, sono quasi deserte. Tutt'attorno ormai l'uliveto ha preso il sopravvento su ogni altra coltivazione; dovunque a perdita d'occhio non si vede altro, fino alle montagne lontane, e la posizione permette di spaziare per decine di km. Gli ulivi sono piantati in file regolari; la terra è chiara, non c'è erba, e così il paesaggio è tutto a righe; visto dall'aereo o meglio dal satellite è invece tutto a pois.
Úbeda è in posizione magnifica, in alto sulla cresta fra le due valli parallele dei Guadalquivir e Guadalimar; i pendii digradano dolcemente, tutti sempre a righe -o puntini che sia- verde-argento. È una cittadina interessante per il centro rinascimentale con diversi tesori d'arte; ma anche per l'Alfarería Paco Tito, un'antica fabbrica di ceramiche e terrecotte con forno arabo ancora in funzione. Pure qui l'albergo è in pieno centro, stavolta ricavato in un palazzo nobiliare, con camere sontuose. Verso Granada si attraversano le montagne e poco a poco lo sterminato uliveto cede il posto ai cespugli radi. Granada è famosa nel mondo per le vestigia arabe, ma ha anche un'imponente cattedrale e quartieri caratteristici; le abbiamo dedicato una giornata intera. L'Alhambra, ultima reggia fortificata araba in Europa, per fortuna non manomessa con la reconquista cattolica, occupa una delle colline della città e quindi è in posizione dominante e panoramica; è un complesso così vasto che andrebbe visitato a piccole dosi. Cominciamo dal Generalife, residenza staccata e più alta, in luogo più fresco. È notevole per i giardini e i giochi d'acqua. Poi tocca alla parte centrale, chiusa dalle mura, con altri giardini e la reggia vera e propria, dove ci sono i palazzi più pregiati: e si scopre che andava prenotata da mesi, mannaggia. Per fortuna l'avevo vista ai tempi, quando i turisti non erano troppi e gli ingressi non col contagocce. C'è comunque dell'altro, fra cui l'Alcazaba, la parte più antica e più fortificata, con le torri a dominare la città: bei panorami. Una salita sulla collina di fronte, nel caratteristico quartiere Albaicín, permette un contro-panorama sulla fortezza. Viaggiando verso ovest, a tratti riprende il solito uliveto, ma non è più così assoluto e continuo. Facciamo una deviazione a Priego de Córdoba che si trova appollaiato su un'altura. La chiesa ha un ricco tesoro, ma il paese è noto per le viuzze lì attorno piene di vasi fioriti sulle case bianchissime.
Seguiamo poi una bella strada secondaria fra le montagne, parte ad ulivi e parte a boschi, col verde-argento alternato al verde scuro sul fondo ocra della terra. Più avanti si attraversa un lago artificiale: il livello delle acque è basso; chissà con le alluvioni che verranno a fine mese. Malaga è cresciuta moltissimo come centro balneare (è la Rimini andalusa) e l'edilizia si è sviluppata oltremisura, sfigurando le zone periferiche e quelle lungo il mare, il cui aspetto è peggiorato rispetto a quel che ricordavo. Rimane comunque il bel centro storico, dove si fanno notare un mercato coperto e alcune vie con altissime palme che rasentano le case. La cattedrale rinascimentale, stretta fra le viuzze, ha solo una piazzetta striminzita davanti e non se ne riesce ad avere una vista complessiva. È l'unica delusione del viaggio. Nella piazza lì vicino alcuni schermidori, anche giovanissimi, danno spettacolo. Una magnifica strada, non per la costa troppo turistica, ma all'interno fra i monti boscosi, con giri e rigiri e molti punti panoramici ci porta a Ronda, città nota per la posizione. Prima di raggiungere il centro si sfila la Plaza de Toros, sembra la più antica (1784); qui sono state codificate le regole della corrida. Poco oltre c'è il Puente Nuevo, che scavalca il profondo burrone fra il centro storico e la parte moderna. È il richiamo principale della città, e a buon diritto: alto 90 metri e lungo 70, significa che la spaccatura è più alta che larga, ed in effetti le pareti sono verticali. Tutt'attorno ci sono terrazze panoramiche e le case ai lati digradano a scaletta fin sull'orlo dell'abisso. Troviamo un ristorante in ottima posizione, con tavoli su più terrazzi, ma l'affollamento è tale che è impossibile trovare un posto con buona vista. Per di più si mette anche a piovere (era previsto) e dobbiamo cambiar tavolo. Non basta ancora: mentre siamo riparati da un tendone, un movimento della stoffa fa sgorgare d'improvviso un getto d'acqua proprio sopra di me: la cascata mi manca di poco, ma dobbiamo passare all'interno. La visita poi prosegue, sempre sotto l'acqua, nel centro storico che non offre però altre attrattive di quel calibro. Rientriamo a Siviglia, dove ci sarà l'aereo per tornare, ma anche la visita prenotata all'Alcázar, residenza-fortezza araba. È un complesso di edifici ancora oggi usati in parte come residenza reale, e questa parte è la meno cospicua; il massimo è nei palazzi arabi. Nel Salone degli Ambasciatori l'arte mudéjar (arabo-cristiana) dà il meglio. Non ci sono arredamenti, ma non li si noterebbe: si sta col naso in su a guardare pareti e soffitti. È lo stesso genere di ambienti della parte dell'Alhambra che non siamo riusciti a visitare. I giardini però sono chiusi per un'allerta meteo, peccato. A vedere le poche gocce che cadono mi sembra un rischio lontano, ma ieri ci sono stati dei rovesci, e capisco la prudenza; a fine mese ne avranno ben donde. 9 novembre 2024 Giovanni Saccarello
Il sole e il cielo sereno di fine ottobre ci hanno invogliato a trascorrere qualche giorno nel centro Italia, partendo in auto da Milano il giovedì mattina e rientrando il lunedì successivo. Dopo una sosta per uno spuntino nell’elegante Forte dei Marmi, siamo giunti a Fonteblanda (Hotel Cala di Forno, piazza Uccellina 4), località a circa 4 km da Talamone, piccolo borgo sul mare e frazione di Orbetello. Siamo a sud del Parco naturale della Maremma, in provincia di Grosseto, in una bellissima zona di spiagge sabbiose circondate da vegetazione mediterranea. Talamone – che abbiamo raggiunto la sera, dopo un magnifico tramonto – ha una storia molto interessante, che affonda le radici in epoca antica, tanto che era già nota al tempo degli Etruschi. Il suo nome è di origine greca, forse collegato a Telamone, personaggio mitologico, che sarebbe sepolto sotto lo sperone roccioso su cui sorge la rocca. Quest’ultima, imponente e di un certo fascino, ben illuminata la notte e circondata da alte mura, fu costruita nel XIII secolo dai conti Aldobrandeschi. Attacchi di pirati e condizioni insalubri del luogo – la malaria mieteva molte vittime – portarono al declino e al progressivo spopolamento, fino a una lenta ripresa nel XVIII secolo. Fu nel 1860 che Talamone ebbe di nuovo il suo momento di gloria: vi sbarcò il 7 maggio Giuseppe Garibaldi durante la spedizione dei Mille. Oggi è meta frequentata d’estate. Noi abbiamo camminato per vicoli deserti, in un silenzio quasi surreale, cenando al bar “L’Approdo”., davanti al porticciolo. Il giorno seguente la nostra unica, importante tappa è stata Tarquinia, in provincia di Viterbo, Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Dal colle su cui sorge il centro storico si ha una vista stupenda, fino al mare. Antichissimo insediamento etrusco, diede a Roma i suoi ultimi tre re (Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo). La nostra visita ha incluso il magnifico Museo Archeologico, ospitato dal 1924 nel quattrocentesco Palazzo Vitelleschi. Le collezioni sono straordinarie, tra le più preziose raccolte di arte etrusca al mondo: su tre piani si possono ammirare sarcofagi del IV sec. a C., con statue-ritratto di uomini e donne in posizione sdraiata, meravigliosamente scolpite, insieme ad affreschi staccati dalle tombe sotterranee della necropoli, a vasellame, gioielli, reperti trovati durante gli scavi. Dai nomi incisi sui sarcofagi sono stati ricavati interessanti alberi genealogici di illustri famiglie etrusche, come quella dei Partunu. Il capolavoro è considerato la coppia dei “Cavalli alati”, uno splendido altorilievo dipinto che apparteneva al tempio dell’Ara della Regina: resta solo il timone della biga cui erano attaccati, dato che la lastra si è spezzata. Il biglietto del Museo comprende anche la visita alla vicina Necropoli di Monterozzi. Il sito è databile dalla fine del VII sec. a.C., fino all’inizio del I sec. a.C. Qui siamo rimasti più di due ore, visitando numerose tombe a tumulo, sparse in un vastissimo pianoro erboso, di grande fascino per gli affreschi in buona parte ben conservati. Immagini di animali quali pantere, leoni, cervi, e figure di danzatori, giocolieri, cacciatori, guerrieri, sembrano riportarci indietro di decine di secoli. Anche i disegni geometrici che spesso decorano soffitti e pareti sono pregevoli.
La meta della seconda giornata di viaggio era il Lido di Ostia (Hotel Ping Pong, Lungomare Paolo Toscanelli 84), dove ci siamo fermati un paio di notti. È stata una piacevole sorpresa: viali alberati con eleganti palazzine d’epoca, spiaggia ampia e pulita, mare limpido... I Romani sono fortunati! Ovviamente in estate sciami di turisti e bagnanti rendono il luogo diverso da come l’abbiamo visto noi in bassa stagione, ma in ogni caso le potenzialità restano molto alte. Il molo, collegato ad una grande rotonda, è davvero scenografico, e vi si recano anche molti pescatori e musicisti di strada. Nell’isola pedonale intorno a piazza Anco Marzio si trovano numerosi locali e ottimi ristoranti. Certo occorrerebbe migliorare il verde (aiuole fiorite e palme ben curate renderebbero piazze e passeggiate davvero bellissime) e soprattutto risistemare il lungomare, la cui pavimentazione è sconnessa in più punti. Non solo, sarebbe necessario riqualificarlo spostando o ridimensionando le file continue di grosse cabine degli stabilimenti balneari, che finiscono per impedire incredibilmente la vista del mare e della spiaggia! Esistono pure vere e proprie costruzioni palesemente abusive, che andrebbero rimosse. Molto valida e intelligente è invece la lunghissima pista ciclabile, che corre parallela alla passeggiata. La mattina del 2 novembre, Commemorazione dei Defunti, ci siamo avviati a piedi verso il Parco Letterario dedicato a Pier Paolo Pasolini, sorto nel punto in cui fu trovato, esattamente quarantanove anni fa, il suo cadavere, straziato da assassini rimasti sconosciuti (l’allora diciassettenne Pino Pelosi, che inizialmente si addossò la responsabilità dell’omicidio, fu probabilmente solo spettatore dell’agguato al grande scrittore e regista). Alla fine del lungomare si percorre una via deserta e si giunge a un cancello. Si entra in un piccolo giardino, curato dalla LIPU che tutela la zona – interessata dalla foce del Tevere – grazie a un’Oasi naturalistica, il Centro Habitat Mediterraneo, che ha sostituito la squallida area fangosa dell’Idroscalo, occupata da rifiuti e baracche, dove fu selvaggiamente aggredito Pasolini. Qua e là tra l’erba e gli alberi si trovano cippi di pietra, che portano incisi significativi versi del poeta, e diverse panchine. In mezzo è stato eretto, nel 2005, un monumento bianco, opera dello scultore Mario Rosati: una rondine stilizzata, con il bel testo pasoliniano “...passivo come un uccello che vede tutto, volando, e si porta in cuore nel volo in cielo la coscienza che non perdona”, tratto da “Lavoro tutto il giorno” (in Poesia in forma di rosa). Dal Lido di Ostia ci siamo quindi spostati a Roma, utilizzando il treno (in realtà, una metropolitana) che parte ogni 20 minuti dalla stazione di Lido Centro, raggiungendo la capitale in circa mezz’ora, dopo nove fermate, al capolinea di Porta San Paolo, collegato alla fermata “Piramide” della linea B. Abbiamo trascorso un piacevole pomeriggio passeggiando e ammirando ancora una volta il Colosseo, i Fori Imperiali, il Campidoglio, piazza di Spagna, Trinità dei Monti...Peccato che la folla di turisti che invadeva le strade e le piazze fosse davvero impressionante, il che rendeva a tratti addirittura impossibile camminare. Un altro ostacolo è rappresentato, in questo periodo, dai numerosi e ingombranti cantieri per la costruzione della linea C della metropolitana; e se si aggiungono le impalcature per i lavori di restauro di chiese e monumenti, in funzione del prossimo Giubileo del 2025, si può comprendere come sia difficile al momento visitare la città. Abbiamo visto la magnifica Fontana di Trevi perfettamente ripulita ma...senz’acqua! E ci sono chiese con capolavori di Caravaggio, come la Basilica di Santa Maria del Popolo, inesorabilmente chiuse. Abbiamo infine dedicato la mattina di domenica agli scavi di Ostia Antica (raggiungibile in due fermate di metropolitana se si vuole lasciare l’auto al Lido). La visita, gratuita essendo la prima domenica del mese, ha richiesto quasi tre ore: il sito archeologico è il più vasto al mondo, si estende per 150 ettari, e la superficie da scavare è ancora enorme! All’epoca della sua costruzione, nel VII sec. a.C., sotto Anco Marzio, la città si trovava alla foce del Tevere, sul mare. Era infatti sorta come luogo fortificato per ospitare la flotta romana, poi si espanse in epoca imperiale e divenne uno strategico porto commerciale, fondamentale per il grano e altri prodotti, fino al declino iniziato nel III sec. d.C. a seguito della costruzione di altri porti. La città si insabbiò lentamente, portando la linea di costa a circa 3 km di distanza; ma fu proprio questo processo a rendere possibile la conservazione degli edifici. Percorrendo il lunghissimo Decumanus Maximus da Porta Romana, si possono ammirare numerose terme, il teatro, i magazzini, quartieri residenziali, templi, anche sotterranei come il suggestivo Mitreo. Mosaici con magnifiche figure nere su fondo bianco ricoprono pavimenti; affreschi dai colori ancora vivaci si ritrovano su pareti; statue, colonne, porticati, lavatoi, fontane, perfino banconi da mescita e latrine pubbliche si incontrano camminando alla scoperta del sito. Mancano cartelli indicatori di un percorso, è quindi indispensabile avere una mappa per non perdere le strutture più interessanti, essendo il sito un vero labirinto. Sulla strada del ritorno, con ancora negli occhi le bellezze attraversate, ci siamo fermati per cenare e pernottare nei pressi di Firenze, a Impruneta, in un ex convento francescano ristrutturato e adibito a splendido hotel (Villa Castiglione), circondato dal verde, su un colle. Lontano, ecco spiccare la cupola del Brunelleschi. Torneremo senz’altro a rivedere anche lo splendore della città di Dante, in un altro, prossimo lungo week end. 6 novembre 2024, Anna Busca SETTEMBRE 2024 ALLA SCOPERTA DELLA COREA DEL SUD Un viaggio “fai da te” di una decina di giorni a circa 8800 km da Milano, in una zona estrema dell’Asia continentale, rappresenta certamente un’occasione preziosa per esplorare, seppure parzialmente dati i tempi ristretti, una parte del pianeta di grande interesse storico, umano, culturale e artistico. Siamo partiti il 17 agosto dalla Malpensa, all’una del pomeriggio, con un volo dell’Air China trovato facilmente su Volagratis – scalo di circa quattro ore a Pechino – arrivando a Seoul (si pronuncia “Sol”) il 18, verso mezzogiorno ora locale: complessivamente, 12 ore di volo. Al ritorno, il 27 agosto, il volo è stato più lungo, con uno scalo a Cheng-du di quasi otto ore; ma tutto si è svolto senza problemi. In Corea la differenza oraria è di + 7 ore rispetto all’Italia, che nel periodo estivo adotta l’ora del fuso confinante più ad est; in inverno è quindi di +8 ore. L’ora di arrivo ci è stata molto utile per raggiungere l’albergo (prenotato tramite Booking come gli altri) giusto poco dopo l’inizio della fascia oraria del check-in, disponendo poi di tutto il pomeriggio per cominciare ad orientarci nella vastissima capitale sudocoreana, che vanta 10 milioni di abitanti (ma, se si considera l’area della conurbazione, quasi 28 milioni, ossia più della metà dell’intera popolazione del Paese). L’aeroporto internazionale di Incheon, dove siamo atterrati, è collocato su un’isola artificiale, a circa 70 km a ovest dalla città: è il più grande della Corea. Le indicazioni per uscire dall’area del controllo passaporti e del ritiro bagagli (rapidissimo) sono comunque molto chiare: seguiamo le frecce arancione dell’AREX (Airport Railroad Express), il treno rapido di collegamento con la Seoul Station, arrivando al piano B2 con le macchinette per l’acquisto dei biglietti (costo 9500 won, ossia più o meno 7 euro); al piano sottostante B1 partono i treni. È tutto molto comodo ed efficiente: in neppure un’ora siamo alla stazione di Seoul. Se avessimo optato per il treno All Stations, indicato in azzurro, avremmo risparmiato qualcosa, impiegando però una buona mezz’ora in più, essendo una metropolitana che obbliga ad una quindicina di fermate (distanti tra loro). Pure la stazione è una struttura enorme, collegata alle linee 1 (blu) e 4 (celeste) della metro: essendoci ben nove linee diverse, cui si aggiunge una quindicina di passanti ferroviari, per evitare errori e conseguenti ritardi preferiamo prendere un taxi, che con 7 euro ci porta a destinazione in neppure un quarto d’ora. Eccoci dunque all’hotel: il Travelodge Dongdaemun Seoul, 359 Dongho-ro, Jung-gu, un grattacielo di ventun piani in una zona strategica per muoverci (anche a piedi) nella stupefacente metropoli. Per quattro notti in una camera doppia con bagno, al 20° piano, con panorama stupendo sulla città, abbiamo speso 330 euro, colazione coreana inclusa (per le ultime due notti del viaggio abbiamo alloggiato all’elegante Hotel Lemong, 28 Jong-ro 16 gil, Jongno district, 195 euro). Occorre sottolineare che abbiamo trovato con piacere sempre un ottimo rapporto qualità/prezzo sia per le sistemazioni alberghiere che per le consumazioni e i pasti (con l’eccezione del caffè espresso, in genere a più di 3 euro), grazie a un favorevole cambio con la moneta locale, i won (1 euro corrisponde a circa 1500 won). La cucina coreana è saporita e leggera, con piatti a base di riso, verdure – anche fermentate - carne o pesce, conditi con salse spesso piccanti. Occorre in genere mescolare il tutto in una ciotola, in un mix piacevolissimo, oppure gustare bocconi all’interno di foglie arrotolate, non solo di lattuga, che diventano buonissimi involtini. Ottimi i ravioloni farciti serviti in una zuppa. In un ristorante la carne è stata cotta davanti a noi su un braciere e poi tagliata con grosse forbici in fettine sottili: una decina i contorni da scegliere via via per gli involtini. Una vera squisitezza! Anche lo street food è gustoso: abbiamo molto apprezzato i cosiddetti pancake coreani e, come piccoli dolci, gelatine di mango. I musei hanno ingresso gratuito o con agevolazioni, e in ogni caso i biglietti, anche per le attrazioni, sono in genere di pochi euro. Pure i tour guidati hanno costi accessibili. Per quanto riguarda il collegamento a Internet, non abbiamo comprato Sim né noleggiato Pocket-wifi: è davvero facile trovare dappertutto free-wifi, usando Whatsapp per messaggi e chiamate in Italia, senza nessun problema! Per la modernissima metropolitana, frequente, perfetta per muoversi, con indicazioni precise per le numerose uscite e gli interscambi, si spende poco. Le carrozze sono molto spaziose; si può seguire il percorso del treno su pannelli elettronici e, curiosamente, buffi squilli di tromba ne segnalano l’arrivo imminente. Si possono comprare tessere ricaricabili, le T-card, a prezzi agevolati, oppure biglietti di corsa singola, a 1500 won. Le macchinette nelle stazioni accettano solo monete e non carte di credito, perché è previsto un deposito rimborsabile a fine corsa restituendo il biglietto. Anche il credito residuo delle T-card è rimborsabile. L’unica difficoltà incontrata, dal punto di vista pratico, è stata proprio ottenere il cash: soltanto una delle nostre carte di credito era sempre accettata nei dispositivi ATM. L’altra, pur essendo una carta “Gold” del circuito Master Card, con il profilo “Mondo”, è stata validata una sola volta in un ATM “Global”: neppure agli sportelli della banca cui ci siamo rivolti è servita per ottenere contanti; e abbiamo scoperto che altri turisti avevano avuto il nostro stesso problema. Meglio quindi, prima della partenza, accertarsi che la propria carta funzioni in Corea per il ritiro di moneta. Per il resto, tutto ha sfiorato la perfezione: la capacità organizzativa e l’altissima tecnologia emergono ovunque. La comunicazione è resa facile dal fatto che l’inglese come seconda lingua è molto diffuso e usato per tutte le informazioni e indicazioni necessarie. Abbiamo inoltre avuto l’impressione sia che un forte principio di solidarietà collettiva animi ogni persona, sia che ciascun lavoro venga sempre svolto con alta professionalità. I sudcoreani ci sono apparsi un popolo spontaneamente disponibile ad aiutare subito chi dovesse avere qualche intralcio, in qualsiasi situazione. Code disciplinate di cittadini per salire sull’autobus, bagni pubblici moderni sempre pulitissimi, strade con pochi cestini ma prive di rifiuti (solo di notte si accumulano in quantità, per la raccolta differenziata), edifici e muri non imbrattati, un senso di ordine compartecipato e un notevole silenzio anche nelle aree più affollate ci hanno convinto dell’esistenza di un modello comportamentale sociale profondamente ispirato al rispetto verso gli altri. Insomma, ci è parso che in generale prevalga un consapevole senso civico, indipendentemente da eventuali normative – e conseguenti sanzioni - più severe di quelle vigenti in Italia, e al di là di episodi di corruzione e malgoverno che hanno contrassegnato la storia più recente. SEOUL Nonostante previsioni meteorologiche pessime legate alla stagione delle piogge – agosto non è considerato il mese migliore per un viaggio in Corea, si dovrebbe preferire la primavera o l’autunno – abbiamo sempre avuto un tempo discreto, soleggiato, con l’eccezione di una sola giornata particolarmente piovosa. L’afa non è mai stata davvero insopportabile, grazie all’aria condizionata ovunque e...all’uso di ventagli! La nostra prima visita di Seoul si è avvalsa, grazie alla vicinanza rispetto all’hotel, di un piacevolissimo percorso, per lo più ombreggiato, sotto il livello stradale lungo il torrente Cheonggyecheon, che attraversa la città per 11 km prima di sfociare nel fiume Hangang. Si tratta di una sorta di “High Line” newyorchese (o meglio “Low Line” o “Water Line”!), frutto di un progetto urbanistico del 2003 finalizzato a restituire alla città un luogo fruibile dal punto di vista ricreativo, di sicuro fascino: era infatti finito in un tale degrado che inizialmente si decise di coprirlo con una sorta di superstrada. Per fortuna menti illuminate l’hanno poi eliminata, trasformando il torrente, dalle acque limpide popolate da uccelli come aironi e germani, in una vera oasi nel cuore della metropoli. Ventidue ponti lo scavalcano, e numerose scalette consentono di scendere per la passeggiata; le due sponde hanno aiuole e una bella vegetazione; sono anche collegate, a tratti, da file di sassi piatti e affioranti su cui si può passare in sicurezza. Molti si siedono con i piedi nell’acqua per avere un po’ di refrigerio. Fontane scenografiche che si colorano nelle ore notturne e bellissime piastrelle murali (più di 5000) che rievocano, come fedele riproduzione, un dipinto raffigurante il settecentesco corteo regale di re Jeongjo della dinastia Joseon, in visita, insieme alla madre, alla tomba del padre, rendono il luogo ancora più bello e interessante. All’inizio del torrente, nella Cheonggye Plaza, si ammira un monumento alto e colorato, a forma di cono spiralato, opera dello scultore svedese Claes Oldenburg. Tutta la città è costellata di monumenti di arte contemporanea, molti metallici, altri giganteschi di pietra o materiali plastici. In mezzo alla moltitudine di grattacieli che caratterizzano la metropoli, spiccano come decoro urbano davvero originale. Abbiamo attraversato il noto quartiere di Myeong-dong: negozi di ogni genere, bancarelle con coloratissimi prodotti di artigianato, un centro commerciale enorme del gruppo (chaebol) Lotte, attraggono sciami di turisti e di residenti per lo shopping. Poco distanti si trovano molti mercati coperti, incredibilmente traboccanti di merci e dall’architettura labirintica, simili a bazar. A Myeong-dong si trova anche la cattedrale, cattolica: un coreano su quattro aderisce al cattolicesimo, gli altri soprattutto al buddismo, ma pure al confucianesimo, al protestantesimo e all’Islam. I musei sono ovviamente numerosi e abbiamo dovuto fare, nei giorni successivi, una necessaria selezione, come per tutte le nostre mete. Tra i tanti, abbiamo scelto il National Museum of Modern and Contemporary Art (MMCA), con installazioni ed opere molto originali, il Leeum Samsung Museum of Art, con una straordinaria collezione antiquaria di ceramiche e statuette, il Museum of Art di Deoksungung. Estremamente interessanti ci sono parsi il National Museum of Korean Contemporary History, il War Memorial e il National Museum of Korea (dove simpatici robot bianchi si muovono lungo i corridoi e danno informazioni). Visitarli ci ha consentito di ripercorrere le tappe principali della storia della Corea, la cui conoscenza, seppur sommaria, consente di capire un po’ meglio l’evoluzione culturale, le meravigliose produzioni artistiche coreane e la complessa situazione odierna. I tre regni esistenti in Corea circa duemila anni fa -spesso in guerra contro invasori cinesi - furono unificati nel VII sec. sotto l’importantissima dinastia Silla, che dominò fino al IX sec.; si affermò quindi la dinastia Goryeo (o Koryo, da cui deriva appunto il nome “Corea”) e nei secoli successivi si svolsero complicate vicende legate a numerose invasioni (mongole, giapponesi, manciù), nonché a colpi di stato. La dinastia Joseon, fondata nel 1392, durò fino al 1910: il suo quarto sovrano, Sejong il Grande – cui è stata dedicata un’enorme statua davanti al palazzo Gyeongbokgung -pubblicò nel 1446 il nuovo alfabeto fonetico, ammirato dai linguisti come straordinario sistema di scrittura scientifico. Il coreano infatti non si avvale di ideogrammi, come per esempio il cinese: i suoi caratteri sono lettere o dittonghi. La Corea divenne un protettorato giapponese nel 1905, dieci anni dopo l’assassinio dell’imperatrice Min ad opera di sicari; fu poi annessa direttamente all’impero nipponico (1910), suscitando movimenti di resistenza sostenuti prevalentemente da intellettuali coreani in esilio. Al Dosan Park si erge la statua di An Chango (1878-1938), soprannominato Dosan, eroico attivista che lottò con grande coraggio – anche dagli Stati Uniti, dove era emigrato per diversi anni - per l’indipendenza coreana dal Giappone, morendo prigioniero: è commemorato anche in un piccolo, interessante museo. È sepolto nel parco, insieme a sua moglie. La sconfitta giapponese nella II guerra mondiale ebbe come conseguenza anche la suddivisione del Paese, nel 1948, all’altezza del 38° parallelo, in Corea del Nord, comunista, nella sfera d’influenza russo-cinese, e Corea del Sud, democratica, nella sfera d’influenza statunitense. Ma solo due anni dopo, il 25 giugno 1950, i nordcoreani invasero il sud e in due mesi ne occuparono tre quarti del territorio: si diede così inizio alla spaventosa “guerra di Corea”, che fece circa sei milioni di morti e coinvolse ben 25 nazioni. Intervennero infatti gli Stati Uniti, supportati dall’ONU, mentre Cina e Unione Sovietica sostennero con armi e soldati la Corea del Nord, creando una situazione delicatissima nel periodo della cosiddetta “guerra fredda”: solo l’armistizio (non un trattato di pace!) di Panmunjeom del 27 luglio 1953 portò al “cessate il fuoco”. Attualmente la Corea è l’unico Paese rimasto diviso in due, con molte criticità: a nord la Repubblica Popolare Democratica di Corea (DPRK), di fatto una dittatura totalitaria di stampo stalinista, con culto della personalità, dominata dalla dinastia Kim, e a sud la Repubblica di Corea (ROK), in attesa di un’auspicata unificazione che, a settant’anni dall’armistizio, risulta davvero difficile. Soprattutto nel War Memorial of Korea, dove sono esposti carri armati, aerei, navi, missili e moltissimi reperti, abbiamo ripercorso le tappe di questa drammatica storia recente. Per approfondire, ci siamo anche recati – necessariamente con un tour organizzato - alla “zona demilitarizzata” o DMZ, sul confine (vedi). A templi, santuari e palazzi abbiamo dedicato – in itinerari diversi - molto tempo della nostra visita di Seoul, a partire dal Santuario reale di Jongmyo (XVI sec.), confuciano, con edifici di legno che ospitano le tavolette spirituali associate a diverse figure della dinastia Joseon, re e regine, in ossequio al culto degli antenati. È un prezioso sito dell’UNESCO e vi si svolgono ancora cerimonie e rituali. Il capolavoro da visitare assolutamente è Gyeongbokgung, il più grande e importante palazzo dei cinque costruiti dalla dinastia Joseon: residenza imperiale fino alla fine dell’Ottocento, dall’ingresso maestoso, risale alla fine del XIV sec. e fu fondato proprio dal capostipite della dinastia, il re Taejo. Distrutto un paio di volte dai giapponesi invasori (1592, 1911) fu restaurato e riportato ai suoi fasti originari circa trent’anni fa. Il complesso comprende una decina di edifici, tra cui il più importante è Geunjeongjeon, dove si trova la sala del trono, con due draghi – simboli del potere -dipinti sul soffitto. Lasciano a bocca aperta i meravigliosi colori e decori dei tetti, dalle particolari forme sinuose, e delle pareti: prevale il verde giada, con molto rosso, azzurro e giallo, in disegni geometrici o floreali. Un padiglione è circondato da un grande stagno artificiale; altri edifici ospitano le stanze della regina madre, gli appartamenti reali, uffici governativi. Nei giardini retrostanti si ammira un laghetto con un’isoletta dove si trova, collegato con un ponte di legno e in mezzo a fiori e piante acquatiche, una bella costruzione a due piani: sullo sfondo, le suggestive montagne coreane. Molte persone – sia “figuranti” che visitatori - soprattutto donne, appaiono vestite con i colorati costumi tradizionali coreani, detti “hanbok”: sono una sorta di kimono piuttosto rigonfi il cui disegno risale a circa 1600 anni fa. Possono essere noleggiati per avere sconti agli ingressi; molti negozi li vendono, spesso sono usati come abiti raffinatissimi per cerimonie e matrimoni. Un altro luogo imperdibile e suggestivo è senza dubbio, a sud della città, superato il fiume, nel Gangnam District, il tempio buddista di Bongeunsa, la cui fondazione risale all’VIII sec. Gli edifici, più volte ristrutturati, sono dominati da un’enorme statua di Buddha; all’ingresso vi è una grande distesa di fiori di loto, e nei diversi loggiati sono appese moltissime lanterne colorate con i fogli di preghiera dei fedeli. Nei pressi della Seoul City Hall, in un quartiere molto trafficato, abbiamo raggiunto il palazzo Deoksugung: gli edifici – stupendi per colori e decori - sono circondati da piante di un vasto giardino ma anche da altissimi grattacieli tutt’intorno. Il complesso risale per lo più al XV sec., tranne una costruzione in stile coloniale dell’inizio del XX sec. (Seokjojeon), sede di un museo di arte, insieme a una biblioteca e ad una residenza per ospiti, dello stesso periodo. Nello Junghwajeon vi è la sala del trono. Un’altra meta che ci ha consentito un tuffo nel passato è stato il Namsangol Hanok Village: i villaggi hanok, costituiti da case dall’architettura tradizionale, riferibile al XIV sec. e alla dinastia Joseon, in legno decorato, ispirate all’equilibrio con la natura, sono da diversi anni oggetto di restauri e valorizzazione, dopo essere stati per lo più distrutti per far spazio ai grattacieli. Si passeggia tra le casette in un ampio giardino, con un ruscello e un laghetto, in un vero locus amoenus. Nelle vicinanze, svetta in cima al Monte Namsan la Seoul Tower, alta circa 236 m, simbolo della città dal 1980, quando fu aperta al pubblico. Per raggiungere la torre più rapidamente si può usare una piccola cabinovia, un po’ lenta ma comoda (Namsan Cable Car); e per avere un magnifico panorama a 360° della città occorre salire, grazie a un velocissimo ascensore al cui interno sono proiettati filmati immersivi, all’osservatorio. Qui si trovano anche caffè, e più sopra alcuni ristoranti. Conviene arrivare alle 10, ossia all’orario di apertura, per evitare alla biglietteria code di turisti e di coppiette, dato che il luogo è considerato molto romantico (migliaia di lucchetti appesi alle recinzioni lo confermano!). A proposito della qualità dell’aria, una curiosità: il colore della Seoul Tower, illuminata di notte, ne è un indicatore. Per esempio, il colore blu corrisponde ad aria “buona”. Noi l’abbiamo vista sempre verde, colore associato a una qualità “media”; se si fosse illuminata di rosso, sarebbe stato il segnale di “aria irrespirabile” per l’inquinamento! Per alcune ricorrenze o eventi il colore è però scelto in modo indipendente... Una costruzione contemporanea che ci ha colpito moltissimo è stato il Dongdaemun Design Plaza (DDP), un centro culturale multifunzionale progettato da Zaha Hadid e inaugurato dieci anni fa. Simile a una gigantesca astronave aliena dalle forme curve, rivestito da alluminio e acciaio con effetto specchio, di notte si illumina di colori cangianti, in veri e propri incredibili spettacoli neofuturistici accompagnati da musiche e suoni. Più a sud anche il COEX Convention & Exhibition Center, un centro congressi con ampi spazi commerciali, un cinema-teatro, perfino un Acquario, ha un’architettura interessante. Davanti all’ingresso spicca il grande monumento dorato con due pugni sovrapposti, inaugurato nel 2016 in omaggio al successo mondiale della canzone coreana “Gangnam Style” del cantante Psy, nel 2012. Si può ascoltare, vedendo il video, accanto al monumento, che è diventato una frequentata meta turistica per selfie e balli. Tutto il Gangnam district è una zona di tendenza grazie a Psy! Nell’ultima giornata trascorsa a Seoul abbiamo attraversato a piedi il Seongsudaegyo Bridge sul fiume Hangang, ammirando la vista della metropoli da un punto di osservazione particolare, per concludere il nostro percorso nella Seoul Forest, un vasto parco, inaugurato nel 2005, che merita una visita sia per il paesaggio che per le numerose statue che vi si trovano. Fa parte di un bellissimo progetto che vede altre quattro estese zone verdi nella città mirate al benessere, allo svago, all’educazione ambientale. Camminare nei viali tra gli alberi o su tappeti erbosi, accanto a stagni, ruscelli e fontane, è come prolungare la meditazione nei templi buddisti... DMZ Abbiamo dedicato una mattina a un tour alla cosiddetta “zona demilitarizzata”, ossia una sorta di zona-cuscinetto militare sul confine tra le due Coree, neutrale, stabilita con l’armistizio del 1953: una striscia di terra larga circa 4 km e lunga 250 km, che interseca il 38° parallelo e va dall’estuario del fiume Han a ovest fino al Mar del Giappone a est. Dovrebbe impedire il contatto tra soldati sudcoreani e nordcoreani, evitando incidenti che potrebbero causare una ripresa del conflitto. In realtà nella DMZ sono purtroppo avvenuti, nel corso degli anni, sporadici episodi di violenza, che hanno portato complessivamente a ben un migliaio di morti, tra cui una cinquantina di soldati U.S.A. Viene considerata una zona alquanto pericolosa, anche perché, paradossalmente, finisce per avere aree confinanti altamente militarizzate; comunque le mine antiuomo presenti nella zona di sicurezza congiunta (Joint Security Area, JSA) sono state rimosse nel 2018. Un aspetto positivo da rilevare è che è diventata un territorio prezioso per la biodiversità: fauna e flora, indisturbate, hanno potuto riprodursi e diffondersi in un ambiente non inquinato né antropizzato. È dunque diventata di grande interesse per gli ecologi, anche se la richiesta sudcoreana, nel 2011, di classificarla come Riserva della Biosfera dell’Unesco ha visto la netta opposizione della Corea del Nord. Peccato! Noi siamo entrati in una piccola parte a circa 70 km da Seoul, vicina a Panmunjeom e quindi alla JSA (che non si può più visitare a causa di un incidente avvenuto nel luglio 2023, quando un giovane americano, tale Travis King, lasciò il gruppo di turisti per attraversare il confine, violando i rigidissimi divieti e finendo arrestato dai nordcoreani). La DMZ è presidiata da forze ONU: l’ingresso è consentito solo a chi vi si reca con una guida autorizzata. Sul pullmann salgono militari armati, per il controllo dei passaporti, che devono corrispondere all’elenco dei visitatori predisposto dall’agenzia. I soldati che ci hanno chiesto i documenti erano giovanissimi canadesi. Il nostro tour si è sfortunatamente svolto sotto la pioggia, ma il tempo non ci ha precluso tappe molto interessanti, quali l’Osservatorio Dora, sulla cima del Monte Dorasan (in realtà una collina di 150 m), a Paju, da cui si può scrutare con cannocchiali il territorio nordcoreano, che nel nostro caso era avvolto dalla nebbia; all’interno si può assistere ad una proiezione che riassume le vicende storiche correlate, illustrando le abitazioni e le condizioni di vita al di là del confine. Si può anche visitare una mostra, e naturalmente c’è una caffetteria, insieme a un bookstore-shop per souvenir. Non distante, ecco il Terzo tunnel d’infiltrazione: scoperto nel 1978 grazie a un disertore (il primo fu trovato nel 1974, l’ultimo nel 1990), è uno dei tunnel scavati segretamente dalle forze armate nordcoreane per consentire l’ingresso “a sorpresa” di truppe in Sud Corea. Preparavano dunque un’invasione, anche se la spiegazione ufficiale fu che servivano per ricerche minerarie, in particolare del carbone (che però non c’è!). Sono state scoperte nella DMZ quattro di queste gallerie sotterranee, lunghe in genere un paio di km, larghe circa 2 m e alte altrettanto, ma si ritiene che altre – forse una decina in tutto – non siano ancora venute alla luce. Possono contenere migliaia di soldati. Siamo scesi dunque lungo il tunnel, con la testa protetta da un caschetto perché è facile urtare il soffitto. Il tunnel è in pendenza per evitare ristagni idrici. Si giunge alla parete che chiude il tunnel, sul confine, e poi si risale, con una certa fatica. Incredibilmente, questi tunnel di aggressione sono ora diventati mete turistiche apprezzate, con un notevole guadagno per la Repubblica di Corea! BUSAN Con un treno veloce della Korail, prenotato da Milano sul sito Rail Ninja, abbiamo attraversato la penisola coreana – verde e montuosa, con città caratterizzate sempre da selve di grattacieli residenziali, tutti uguali e numerati - per raggiungere un’altra metropoli, Busan (Pusan), a 323 km da Seoul. Partendo verso mezzogiorno, siamo arrivati dopo neppure tre ore di comodo viaggio; il biglietto per due, andata/ritorno, ci è costato in tutto 142 euro. L’alloggio prenotato era l’Arban Hotel, 32 Jungang-daero 691 Beon-gil: per tre notti, sempre con colazione inclusa, la spesa è stata di 275 euro. L’albergo si trova nel quartiere di piazza Seomyeon, moderno e vivace: la metro è vicina (linea verde), e ha al suo interno un grandissimo shopping center underground. È nei pressi anche un grande Lotte Department Store. Ce ne sono parecchi, come a Seoul: siamo saliti in cima a uno di questi, nel quartiere di Nampo-dong, sul mare, per ammirare da una magnifica terrazza al 13° piano il bellissimo panorama della metropoli, dei suoi ponti, del porto. Busan si affaccia sullo stretto di Corea, verso il Mar del Giappone, e fronteggia l’isola giapponese di Tutshima, da cui dista appena una cinquantina di km. Ha quasi 4 milioni di abitanti ed è la seconda città coreana più popolata, dopo Seoul. Si estende in una sorta di anfiteatro, sulla costa, ai piedi di montagne che, vista l’altezza (circa 800 m) sono più simili a colline, ricoperte da boschi. Le zone d’interesse sono piuttosto disperse e lontane tra loro: è quindi indispensabile muoversi in metro, anche in questo caso molto efficiente, costituita da sei linee spesso intersecate, con più di un centinaio di fermate. La nostra scelta è caduta su alcuni luoghi considerati iconici: il Gamcheon Culture Village, che però richiedeva una faticosissima salita lungo ripide viuzze (e dunque non ci siamo addentrati), il mercato del pesce di Jagalshi, enorme, con file interminabili di banchetti e contenitori di pesci e crostacei vivi, lo Yongdusan Park, che si raggiunge con lunghissime scale mobili; e ancora, la larga spiaggia di Haeundae, di sabbia fine, con imponenti grattacieli sullo sfondo, e l’affascinante tempio buddista di Beomeosa, alle pendici del monte Geumjeongsan. Il nome significa “Tempio del Pesce d’Oro dal Paradiso di Brahma”. Fu fondato nel VII sec. Per raggiungere il tempio, quasi al capolinea della linea 1 – direzione Nopo – ci siamo avvalsi anche di un autobus, il n.90, che dopo qualche km ci ha lasciato nei pressi. Il luogo è altamente suggestivo. Le preghiere e i canti dei monaci, insieme al suono del gong, accompagnano la visita e invitano alla meditazione. Qui, come in altri templi, è applicato il programma “Templestay”, che prevede la possibilità, per chi lo desidera, di soggiornarvi per partecipare ai riti buddhisti. Si può passeggiare nel bosco adiacente, lungo un sentiero circolare in “saliscendi” di circa 900 m, che però finisce per avere poche segnalazioni e porta paradossalmente a smarrirsi nella fitta vegetazione, come è successo a noi! Diventa una sorta di “ottuplice sentiero” che mette a rischio caviglie e metatarsi...In prossimità del tramonto, poi, diventa problematico uscirne. Meglio affrontare il percorso al mattino o nel primo pomeriggio. Infine, abbiamo dedicato un’intera giornata a un tour organizzato molto bene dall’agenzia Klook, contattata a Busan: in circa un’ora e mezza di pullmann siamo arrivati a Gyeongju, antica capitale del Regno dei Silla per circa 1000 anni (dal 57 al 935 d.C.). GYEONGJU A 80 km a nord di Busan si trova quella che viene considerata la “capitale culturale” della Corea del Sud, possedendo numerosi edifici e siti di grande importanza storica. Gyeongju è quindi una delle mete turistiche più importanti. La nostra prima tappa è stata, sul monte Tohamsan, il magnifico tempio di Bulguksa, il cui nome significa “Terra di Buddha”. È patrimonio mondiale dell’UNESCO. Si tratta, come negli altri templi, di un complesso di edifici in legno colorati e decorati, più volte ricostruiti a seguito di devastazioni o incendi. Solo le strutture in pietra, come scalinate e pagode, hanno resistito nel tempo e sono dunque originarie dell’epoca Silla (VIII sec.). Anche qui, nel cortile principale, si trovano appese centinaia di lanterne colorate votive. Molte statue di Buddha sono conservate nelle diverse sale. In un cortile, una curiosa statuetta di un cinghiale dorato viene toccata sul muso dai visitatori, come gesto beneaugurante (la superstizione s’incontra anche nei templi buddisti!). Ci siamo quindi spostati nel verdissimo e splendido complesso tombale di Daereungwon: qui si trovano tumuli, ossia colline erbose coniche di altezza variabile, fino a una ventina di metri, che corrispondono alle sepolture di re e regine della dinastia Silla. Si può entrare all’interno di un solo tumulo, quello di Cheonmachong (Tomba del Cavallo Celeste), del V-VI sec., di un sovrano sconosciuto, dove sono conservati reperti, ori, oggetti del corredo funebre, e la ricostruzione di quella che doveva essere la modalità di sepoltura, in una cassa di legno laccata. Qui è stato scoperto il dipinto di un cavallo al galoppo, con otto zampe alate, animale mitologico coreano. Il lungo ponte Woljeonggyo, dal prevalente colore rosso, è una fedele ricostruzione di quello originario, risalente sempre al periodo Silla, che purtroppo fu distrutto da un incendio sotto la dinastia Joseon. Percorrendolo si giunge a un villaggio, abitato, non particolarmente interessante. Infine, eccoci in un luogo magico: il palazzo reale Donggung, i cui edifici sono immersi in un grande parco e circondati dallo stagno artificiale Wolji. Siamo giunti al tramonto, per ammirare lo spettacolo delle loro luci riflesse nelle acque, mentre fa da sfondo un suggestivo cielo viola-rossastro. Molti visitatori si siedono tra gli alberi, in attesa di scattare bellissime fotografie: e noi siamo stati tra questi. Lo stagno fu scavato nel VII sec., mentre il palazzo fu costruito circa cent’anni dopo: era destinato a ospitare cerimonie e feste. Fu distrutto durante una guerra del X sec. La sua perfetta ricostruzione e il ripristino dello stagno, con tre isolotti, sono recenti; durante gli scavi furono trovati molti reperti e manufatti preziosi. Ma prezioso è comunque tutto il sito: e l’immagine del tramonto sul Donggung è stata certo tra quelle più care che ci siamo riportate in Italia. Settembre 2024, Anna Busca AGOSTO 2024 La Romania del nord in (soli) 8 giorni Ancora un viaggio organizzato di una sola settimana in Europa, come l'anno scorso in Irlanda. Finora ho viaggiato in questa maniera solo in paesi lontani ed esotici; in Europa sempre in modo autonomo, a parte qualche crociera fluviale. Quando vedevo i pullman scaricar frotte di pensionati, pensavo che non avrei mai fatto viaggi a quel modo. E invece adesso, con un po' di capelli bianchi in testa e qualche giuntura dolorante, penso che dopotutto la cosa abbia i suoi vantaggi, specie sotto ferragosto: niente stress a cercar alberghi, a cercar un buco per parcheggiare (e trovarlo se va bene lontano chilometri), a far code alle biglietterie, a guidare la sera dopo giornate faticose, eccetera. Gli svantaggi sono che devi accettare una disciplina necessaria a convivere con altri, e soprattutto un itinerario che non sempre passa dove vorresti tu. E poi c'è la durata. A voler vedere tutta la Romania non basta un mese. Con una sola settimana i tagli sono inevitabili; e si accettano più o meno volentieri secondo i gusti di ciascuno. E ci son pure gli imprevisti. Ne capita subito uno: la strada stabilita per la prima tappa è chiusa proprio in questi giorni per lavori e costringe ad una pesante deviazione per Sinaia, sullo stesso itinerario che faremo al ritorno. Così abbiamo perso il monastero di Cozia, sostituito con quello ben meno interessante di Sâmbăta de Sus. Questa deviazione non mi è ben chiara: possibile che non ci siano strade locali per aggirare i lavori? Di certo è che si passa fra i monti e i valichi non sono frequenti. È un po' -credo- come chiudere il Brennero e deviare tutti a S. Candido. Forse le strade locali per evitare l'ostacolo da vicino non sono praticabili per il pullman. Le spiegazioni dateci in ogni caso non mi hanno convinto. E poi sulla strada rimasta aperta c'è inevitabilmente un traffico doppio. Non abbiamo mai fatto autostrade, ed in effetti ne ho viste ben poche. La Romania in certi settori deve ancora riprendersi. Questo viaggio è centrato sulla capitale e sulla Transilvania, la regione grosso modo compresa entro il grande cerchio che descrive la catena dei Carpazi, e ci siamo allargati un po' anche a nord-est in Bucovina. L'organizzazione Boscolo è stata efficiente ed i partecipanti sempre puntuali ai vari appuntamenti; nessuno ha piantato grane e non ci sono stati intralci al programma. Un plauso particolare alla guida Monica (accento sulla i) che si è fatta in quattro per governare il gruppo e accontentar tutti, e anche all'autista Marius che ha avuto il suo bel daffare ad infilare il torpedone in parecchi passaggi angusti. A proposito: un appunto da fare all'organizzazione riguarda proprio il mezzo, un bestione da una sessantina di posti ma sproporzionato per un gruppo di 26. Se fosse stato più piccolo potevamo evitare la deviazione? Le sue dimensioni gli hanno impedito tra l'altro di arrivare davanti all'albergo della capitale ed in molti altri punti, costringendo ad aumentare i percorsi a piedi. Monica ha anche sfoggiato una buona cultura in vari settori, specie nelle iconostasi dipinte nei vari monasteri, pur con qualche pittoresco inciampo nella pronuncia; ma questi piccoli nei alleggeriscono l'erudizione e la rendono più gradevole. Parlando dei luoghi, ci vuole una piccola digressione sulla grafia e pronuncia. Non ci sono difficoltà particolari; la lingua rumena è latina e la maggioranza delle lettere si pronuncia come da noi, comprese la “c” e la “g” che sono dure o dolci secondo le nostre stesse regole. La cosa però non funziona con le doppie, per cui accidente si pronuncia akcidente. La “i” finale non si pronuncia (Bucuresti è Bucurest); per farla pronunciare la si scrive doppia, e se è lunga è addirittura tripla. La “j” è come in francese; la “s” sempre dura e la “z” è una “s” sonora. C'è poi qualche lettera peculiare: “ă” (suono gutturale come in inglese), “â” e “î” (suono per entrambe intermedio fra “i” e “u”), “ș” (“sc” dolce), “ț” (“z” dura); il segno sotto queste ultime due è come la cediglia francese sotto la “c”. La lingua rumena ha poi molti francesismi (il paese è stato aiutato nella sua indipendenza dalla Francia di Napoleone III) come merci (grazie), bulevardul (viale), gara (stazione). Quanto alla cucina locale, non ricordo niente di eclatante; però io non sono un appassionato nel settore: mi piace provare le specialità locali (fatti salvi certi piatti tremendi tipo l'Haggis scozzese o gli intrugli asiatici a base d'insetti), e poi dimentico tutto. Però ricordo i Mititei o Mici, specie di salsicce senza pelle, descritti da Monica e provati al pranzo di Sighișoara; fra i dolci, i Papanași, monumentali ciambellone con ricotta, panna e marmellata: per me uno di questi è stata una cena completa. Come nelle mie altre relazioni, non descriverò qui i tesori d'arte: questo è compito delle guide; dirò solo delle impressioni e delle curiosità che mi hanno colpito. Siamo all'aeroporto (parlo per i disgraziati in partenza come me dalla Malpensa) col solito grande anticipo; in compenso è in ritardo l'aereo: l'imbarco arriva due ore dopo, ed un'altra passa con l'aereo fermo in pista ed i passeggeri imbufaliti. Soprattutto i bambini dimostrano poca pazienza, e li posso capire; ma intanto bisogna sopportare anche loro. Si arriva così in albergo a Bucarest tardissimo: la cucina è chiusa e la cena, prevista nel programma, ci viene servita fredda in camera. Non è ovviamente il caso di un giretto serale per la città. La prima giornata è consacrata alla visita di Bucarest con passaggi in pullman. I viali nella zona dell'albergo, attorno al centro storico, sono larghi, alberati e del tutto in linea con la media delle capitali europee (traffico incluso), come s'era intuito già all'arrivo ieri sera malgrado il buio. La prima tappa è in periferia, al museo Satului (del villaggio), nel cui parco campeggiano parecchie case contadine antiche, mulini, botteghe, chiese in legno ed altri pezzi originali raccolti ai quattro angoli della nazione. Torniamo in centro e ci fermiamo al colossale palazzo del parlamento, voluto da Ceaușescu approfittando del terremoto del 1977, ma che non ha fatto in tempo a vederlo finito. È un po' sovietico nell'aspetto e nelle smisurate dimensioni (è il 2° al mondo dopo il Pentagono); io lo direi l'ecomostro di Bucarest, ma a modo suo è suggestivo. È anche inquadrato da una piazza semicircolare e da un gran viale che vi arriva di fronte, tutti dimensionati adeguatamente. L'interno è coerente, con grandi saloni e scaloni, ma relativamente sobrio, e le decorazioni non sono pesanti. Marmi dappertutto, tutti rigorosamente nazionali. Dopo pranzo continuiamo a piedi. Nel museo storico sono conservate le riproduzioni dei fregi della colonna di Traiano (personaggio di gran peso nella storia rumena), che si possono vedere più comodamente che a Roma. Lì dietro c'è la basilica Stavropoleos, greco-ortodossa come fa capire il nome, suggestiva per gli affreschi e gli intagli in legno. Le vie attorno hanno un sapore quasi turco, per certe verande di legno che appaiono qua e là. Un luogo caratteristico è l'Hanul lui Manuc (la locanda di Manuc), una specie di caravanserraglio con un cortile circondato da gallerie in legno ed oggi inevitabilmente divenuto un ristorante tipico. Cena libera; chi vuole va a vedere le fontane luminose, nella piazza dove parte il gran viale che conduce al palazzone. Lo spettacolo è notevole: ci sono getti d'acqua dappertutto, che cambiano forme e colore in continuazione. C'è tutto il mondo ad assistere; un muro di gente ostacola la vista. Trovo un punto stranamente libero, ma capisco subito perché: all'improvviso parte un poderoso getto d'acqua che poi deve pur ricadere. L'abbigliamento dei pochi che erano lì, forniti di k-way e ombrelli, doveva suggerirmi qualcosa. Peccato che l'orario d'inizio indicatoci fosse sbagliato: lo spettacolo cominciava mezz'ora prima, ma ho fatto comunque in tempo. Lasciando Bucarest dovevamo puntare ad ovest diretti a Sibiu come detto sopra, invece si va verso nord in direzione di Brașov. Attraversiamo la Valacchia diretti ai Carpazi meridionali. La pianura assomiglia alla Valpadana anche come clima; evitiamo Ploiești ma c'è un'ampia veduta delle sue celebri raffinerie di petrolio. Poi si infila la valle fra le montagne, si sale, l'aria si fa più fresca ed il paesaggio sempre più alpino. C'è molto traffico e presto iniziano le code. Sfiliamo Sinaia, che vedremo al ritorno, e Bușteni dove ci viene indicato (ed è anche ben reclamizzato) il castello di Mercoledì Addams, dove è stata girata la serie: è una villa turrita sotto il pendio boscoso e non pare poi un gran che. Sono anche posti da sci; si nota una certa impronta mitteleuropea. Poco dopo entriamo in Transilvania. Si abbandona la strada principale puntando ad ovest; sosta tecnica (è già la seconda, causa i ritardi) e poi si scende a tornanti nella foresta fino ad un'ampia valle. A destra in cima ad un colle boscoso, spicca il notevole abitato fortificato di Rasnov. Si continua verso ovest in un paesaggio sempre movimentato. Pranziamo con gran ritardo a Făgăraș, in un locale purtroppo fumoso; ci verrà offerto più avanti un aperitivo per risarcimento. La cittadina ha poche attrattive; ma faccio a tempo a scattare un paio di foto alla cattedrale e alla fortezza. Poi tocca al monastero Brancoveanu di Sâmbăta de Sus, in sostituzione di quello di Cozia, ben più celebre ma non raggiungibile per via di quei dannati lavori stradali. Si tratta di un complesso fortificato a quadrato, con in centro la chiesa decorata all'esterno, come quelli che vedremo dopo, il tutto in un giardino ben curato. Dappertutto in questo viaggio si vedono chiese a volte con tetti spioventi che si allargano in basso, a volte a cupole; molte di queste ultime brillano e si vedono da lontano: sembrano antiche ma sono moderne. Infine tappa a Sibiu. Prima di andare in albergo si visita il bel centro storico, racchiuso da mura con torri e quant'altro. Ha case gotiche e barocche di chiara impronta teutonica (la città ha origini sassoni e si chiamava Herrmanstadt), con abbaini sui tetti sagomati in modo da sembrare occhi. C'è una basilica cattolica e a poca distanza un'altra evangelica, tanto per rimarcare le diverse egemonie religiose della sua storia. I quartieri nord presentano dislivelli che offrono scorci panoramici; una delle strade in discesa è scavalcata da un bel ponte, per una volta senza lucchetti. Un giretto serale a piedi conclude la giornata. Torniamo nel centro storico, che non è poi tanto lontano dall'albergo, ma il rientro è piuttosto precipitoso perché si è messo a piovere a dirotto. La mattina dopo, su e giù per le colline arriviamo a Mediaș, città post-industriale: molte fabbriche, qui come altrove, sono state chiuse dopo l'89. È una situazione in realtà mondiale, ma mentre nei paesi più avanzati chi vi lavorava è riuscito a riciclarsi in altre attività, in Romania la disoccupazione ha fatto emigrare molta gente e l'abbandono delle aree industriali fa male a vedersi. Ho già sentito racconti di questo genere in vari paesi dell'est; quello di ricordare l'era sovietica come una specie di età dell'oro, dove c'erano lavoro e assistenza sociale, pur con tutta la dittatura, era un vero ritornello. Adesso non c'è più la polizia opprimente e c'è la libertà, ma anche la povertà, e se vuoi curarti devi pagare. Sono argomenti che portano lontano, ma sono comunque problemi reali. Una deviazione ci porta a Biertan, dominato da una colossale chiesa fortificata scenograficamente in mezzo a torri aguzze. Bella anche la scala di legno coperta per accedere al complesso. Una curiosità è la casetta dove a quanto pare venivano rinchiusi i coniugi che litigavano, come in conclave, finché trovavano un accordo. Si arriva a Sighișoara, dove dobbiamo lasciare il mezzo per salire a piedi (ma ci sono anche navette a poco prezzo) al centro storico, classicamente in alto sulla rupe e circondato dalle mura. Belle casette multicolori, e ben tenute; torri e palazzi, fra cui la casa natale di Vlad Dracul, personaggio storico poi ripreso con molta libertà da Bram Stoker per il suo libro (vita, morte e miracoli ci saranno raccontati domani). In pochi saliamo per un'altra scala di legno coperta al belvedere, con basilica: la vista però è solo sulla città moderna; su quella antica è intralciata dagli alberi. È ora di pranzo e il ristorante è in basso, a poca distanza. Si raggiunge quindi Târgu Mureș, dove spicca il notevole palazzo della Cultura in stile Liberty, o meglio in una variante ungherese della Secessione viennese: la Transilvania era sotto l'Ungheria all'epoca, e ancora oggi metà degli abitanti sono ungheresi. Magnifici gli interni con arredi fantasiosi non pesanti e una gran sala per gli spettacoli. Poi si va alla barocca cattedrale riformata, in origine cattolica. Monica ci spiega anche come riconoscere la tipologia delle chiese: se sulla punta del campanile o della guglia c'è una palla sotto la croce, è cattolica; se croce senza palla è protestante; se invece è tutta a cupole è ortodossa. Si fa tappa a Bistrița; la città non è particolare e non ne è prevista la visita. Chi vuole la farà dopo cena. Per i volontari del giro serale a piedi c'è un quiz da risolvere, con premio a chi indovina: si deve trovare da qualche parte un emblema con uno struzzo e spiegarne il significato. Istruzioni per arrivare in centro: trovare il Ginkgo biloba, poi il monumento al tal-dei-tali: qui voltare a sinistra. Qualche dubbio per identificare l'albero, poi troviamo lo stemma sui tombini. Tutta la vita serale della città è concentrata in una sola via centrale; il resto è quasi deserto. Anche qui piove un po', ma non come ieri sera a Sibiu. La mattina dopo tocca alla soluzione del quiz (non me la ricordo più) e poi, mentre siamo ancora in coda, alle promesse spiegazioni sul principe Vlad III Drăculea, per noi Dracula, cioè “figlio del drago”, eroe nazionale, noto anche come Vlad Tepeș, cioè l'impalatore per il trattamento di cortesia riservato ai suoi nemici. Tutte le associazioni fra questo personaggio, il castello e i vampiri sono solo un'invenzione di Bram Stoker: nella realtà il principe è una cosa, il castello un'altra, e i vampiri sono pura fantasia. Di certo Stoker si è preso delle libertà, però chiediamocelo: quanti di noi conoscerebbero la Transilvania senza il suo libro e i film a seguire? E quanto gli deve il turismo locale? Si sale fra i boschi fino ad un passo dove sostiamo, anche per ragioni tecniche, al Castel Dracula: era un albergo, oggi un rudere, un po' hollywoodiano però in posizione panoramica sulle montagne boscose. Si scende prima in un altipiano a prati smeraldini, poi in un fondovalle boscoso, e passiamo dalla Transilvania alla Bucovina, nella Moldavia rumena. Si arriva a Vatra Dornei, elegante località termale, con tanto di casinò, e oggi anche sciistica; ma vi facciamo solo una sosta tecnica. Oggi è il giorno dei tre monasteri ortodossi: il primo è quello di Moldovița. È preceduto, come quello già visto e gli altri che vedremo, da un bizzarro arco di legno, con tettucci tipo pagoda. È racchiuso in un quadrato fortificato con gli alloggi delle suore ai lati, e al centro, in mezzo ad un prato ben tenuto, la chiesa con ricche iconostasi dipinte sui muri esterni e ben conservate (sono originali!). Gli affreschi sono riparati dalle intemperie grazie ad una notevole sporgenza del tetto. Qui è una monaca del posto, suor Tatiana, che ci fa da guida raccontando ogni dettaglio in ottimo italiano, con precisione teutonica e piglio autoritario: ci sentiamo degli scolaretti in gita con una professoressa all'antica. Chissà se poi c'interroga. Al successivo, quello di Voroneț, simile nella disposizione e nell'aspetto anche per il tetto sporgente della chiesa, gli affreschi esterni del Giudizio Universale si fanno notare per il magnifico sfondo di un azzurro particolare. Qui le spiegazioni toccano a Monica, che forse alza un po' il volume dentro la chiesa, perché arriva una suora arrabbiatissima che quasi ci scaccia sbraitando improperi comprensibili solo alla nostra guida. Poi lasciamo le montagne per l'ondulata pianura moldava. Al terzo monastero, quello di Agapia, l'ambiente è più rilassato. Più che un luogo di penitenza sembra un complesso di lusso, con giardino curatissimo e aiole dai fiori multicolori. All'esterno è circondato da graziose villette, che poi sono le case di altre monache, qui molto più numerose che nei precedenti. Mentre usciamo si sente un rumore ritmico, musicale, di pezzi di legno: sembra che fuori ci sia una festa latino-americana (la movida al pomeriggio?), e invece è una suora alle percussioni che dal campanile suona a quella maniera per richiamare le consorelle alla preghiera. A quanto pare si usa così. Finito lo show tocca alle normali campane che svolgono la stessa funzione, destinate però al paese attorno. Intanto siamo rientrati fra le montagne. Si fa tappa a Piatra Neamț, città turistica stranamente attraversata da una telecabina. Anche qui non è prevista una visita in gruppo. Dopo cena, giro a piedi serale nel vicino centro storico semideserto. La basilica ha il tetto sporgente pure lei, anche se senza affreschi esterni, ed un campanile isolato. Stavolta non piove. La giornata seguente è dedicata alle bellezze naturalistiche. Ripartiamo verso ovest ed affrontiamo di nuovo i Carpazi. Quasi subito costeggiamo il grande lago artificiale di Bicaz e più avanti ci fermiamo nelle gole omonime, dove la strada si apre un passaggio strettissimo fra pareti di roccia verticali. Peccato che i pedoni debbano contendere il poco spazio ad auto e camion, con grande e comprensibile preoccupazione per Monica. Uno spettacolo del genere c'è anche da noi, ai Serai di Sottoguda vicino alla Marmolada: ma lì la strada è stata deviata ed i pedoni possono percorrere le gole in tranquillità: ci vorrebbe anche qui. Più in alto, altra sosta al Lago Rosso, creatosi per una frana quasi 200 anni fa e che dovrebbe assumere la tinta del nome: invece non pare proprio. È in ogni caso un piccolo, grazioso specchio d'acqua circondato da boschi, e ne emergono tronchi pietrificati di alberi. Sulla stradina che costeggia il lago noto che pur con molta gente non ci sono ciclisti; ma subito compare una famigliola con tre bambini in bicicletta, i primi due staccati ed il terzo, più piccolo, più indietro coi genitori. Al momento che affianchiamo i primi, il secondo ciclista, allargatosi troppo sullo stretto sentiero, va giù nel baratro: buon per lui che la vegetazione è fitta, se no c'era il lago. La sorella maggiore si volta a guardare, così non vede dove va, e giù anche lei, anzi molto di più. Naturalmente ci fermiamo a raccattare gli infortunati, piangenti e impauriti (la bimba si anche fatta male, ma è solo qualche graffio), e le loro biciclette. Così c'è stata pure la buona azione. Scendiamo dalle montagne rientrando in Transilvania e proseguiamo verso sud in una valle con paesaggio continuamente variato. Ci si ferma a pranzo a Miercurea Ciuc, dove Marius si esibisce in una manovra forse un po' fantasiosa. Più avanti altra fermata a Sfântu Gheorghe, ma solo per motivi tecnici. Infine tappa a Brașov, distesa ai piedi di una ripida montagna boscosa priva di qualunque costruzione: fa impressione questo stacco netto fra centro storico e boschi. Anche qui c'è turismo invernale. Sbarchiamo e visitiamo la città a piedi. Pure questa è una città di impronta sassone (si chiamava Kronstadt) con palazzi barocchi dai colori pastello come a Sibiu e Sighișoara. Una stranezza è all'interno della gotica Chiesa Nera, dove le panche hanno lo schienale reclinabile: un senso serve per le funzioni, l'altro per i concerti d'organo. Cena libera (mi basta un Papanași) e passeggio nel vivace centro, appena dietro l'albergo. La giornata seguente è dedicata ai castelli. La partenza è anticipata per paura di code al castello di Bran, dove pare che convergano già diversi pullman, essendo quello più gettonato per esservi ambientato il libro di Dracula. Vlad in realtà non c'è mai stato. L'anticipo ha funzionato: il nostro è il primo pullman nel parcheggio. Castello poderoso e arcigno nell'aspetto esterno, ed interessante dentro per la complicazione degli ambienti e gli arredi. Si vede che è antico anche dalla ristrettezza degli spazi. Faceva da guardia all'attiguo confine fra Transilvania (dove ci troviamo) e Bucovina. Ai piedi del castello c'è l'inevitabile accozzaglia di bancarelle, botteghe e un piccolo luna-park a base di vampiri.Ripartendo si rivede il paese fortificato di Rasnov in alto sul colle e si riprende lo stesso percorso dell'andata, code comprese, rientrando in Valacchia. Pranzo a Sinaia (il paese ha preso il nome dal monastero locale, che a sua volta l'ha preso dal monte Sinai); il ristorante è in alto sulla montagna, in posizione panoramica. Poi tocca al castello di Pele ș, del tutto diverso dal precedente: è più moderno (fine '800) e anche molto più raffinato e scenografico: sembra un colossale chalet svizzero; si vede bene che era una residenza reale a scopo promozionale. Peccato che la facciata sia oscurata dai ponteggi dei restauri; è un rischio che il turista deve calcolare, ma ne abbiamo trovati solo qui: da questo lato ci è andata bene. Gli interni, vista l'epoca, sono sovraccarichi di decorazioni per lo più in legno, ma c'è anche un camino in marmo di Carrara. Ricordano quelli del castello bavarese (pure lui moderno) di Neuschwanstein.Si lasciano le montagne; riprendono la pianura e il caldo. Prima di rientrare in albergo, giro finale a Bucarest nella piazza della Rivoluzione: è quella dell'89 con la caduta di Ceau șescu, e sul palazzo del ministero degli interni c'è il balcone del suo ultimo discorso, quando è stato contestato dalla folla che non ne poteva più, e poi ha tentato invano di scappare. Ma tutta la storia è ancora poco chiara.Ultimo giretto serale a piedi con rientro sotto l'acqua, tanto per cambiare. Ogni bella cosa ha la sua fine. Pian piano il gruppo si sfalda in porzioni che partono ciascuna ad una data ora, secondo il loro aereo. I primi van via già nella notte; gli ultimi avranno ancora una mezza giornata da passare in città. Noi no: siamo all'aeroporto a metà mattina, sempre con grande anticipo ed il timore che finisca come all'andata; invece è tutto puntualissimo, l'aereo atterra addirittura in anticipo e le valigie arrivano subito: una cosa impensabile sotto ferragosto. Naturalmente qui da noi fa un caldo schifoso, pienamente in linea col clima padano e rinvigorito dal riscaldamento globale. Ma stando a quel che riferiscono gli altri partecipanti già arrivati, dalle loro parti è anche peggio. Tutti rimpiangiamo subito il bel fresco della Transilvania. 29 agosto 2024 Giovanni Saccarello DALLA LUNIGIANA ALLA VALDINIEVOLE Un itinerario semplice, all’insegna di percorsi artistici e naturalistici particolari, si può svolgere in pochi giorni tra Liguria e Toscana, in una sorta di triangolo tra montagna, collina e mare. La Lunigiana è una zona bellissima, un po’ nascosta, che una volta esplorata lascia ricordi e impressioni molto piacevoli: è raggiungibile da Milano in circa un paio d’ore di autostrada. Splendida è Pontremoli – il comune più settentrionale della Toscana, in provincia di Massa e Carrara - borgo medioevale sul Magra, dominato dal Castello del Piagnaro. Qui si trova l’affascinante Museo delle Statue Stele lunigianesi (MUST), che conserva decine di reperti antropomorfi (fino a circa 2 m di altezza) scolpiti nell’arenaria nell’Età del Rame, del Bronzo e del Ferro, ossia nel periodo compreso fra il 2800 a.C. e il VI sec. a.C. Ne sono state trovate un’ottantina in tutta la Lunigiana, molto spesso sepolte o comunque dislocate rispetto al luogo di origine; solo in un paio di ritrovamenti le stele avevano mantenuto la loro primitiva collocazione, poste in fila una accanto all’altra. Il loro significato è tuttora ignoto: i soggetti sono guerrieri, con un pugnale alla cintola, o donne con seni evidenti e a volte rappresentazioni di collane. Potevano essere immagini di antenati, a protezione dei villaggi, oppure simboli, oggetti di culto, marcatori di territori, segnali per luoghi sacri dove si svolgevano rituali. Restano in ogni caso sculture antichissime e misteriose. Abbiamo dormito a Licciana Nardi, un comune disperso in numerose frazioni, appartenente al Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano, sulla cosiddetta Via del Volto Santo. Quest’ultima è una parte della via Francigena: il nome si riferisce al crocifisso ligneo esposto nel Duomo di Lucca. Il tratto va appunto da Pontremoli a Lucca, e corrisponde al cammino dei pellegrini che avevano come meta questo oggetto di devozione. Il paese è circondato da boschi, nella valle del Taverone; vi si trova il castello dei Malaspina. Noi abbiamo fatto una bella passeggiata fino alla frazione di Pontebosio. Il giorno seguente, entrati nella provincia di La Spezia, abbiamo visitato il sito archeologico di Luni, fondata come colonia dai Romani nel II sec. a. C.: l’anfiteatro è bellissimo, s’intuisce la sua possenza (doveva essere a tre piani); si cammina poi sul lastricato del decumano maggiore, si ammira il foro, si entra in una villa che aveva sale affrescate, dove è stato ricostruito il giardino interno. Il paesaggio intorno ha un certo fascino e richiama alla memoria alcuni panorami greci. Nel piccolo museo sono conservati alcuni capitelli di colonne e busti marmorei. Purtroppo resta poco di quella che doveva essere certamente una città importante e ricca! In ogni caso merita senz’altro una visita.Abbiamo quindi scelto di pernottare per qualche giorno a Montecatini Terme, città già da noi visitata più volte: un vero gioiello, purtroppo in declino, con numerosi alberghi, bisognosi di restauri urgenti, chiusi e messi all’asta, o venduti a oligarchi russi o a società che falliscono subito. L’atmosfera di fine ‘800 – inizio ‘900, legata alle bellissime Terme, al magnifico parco, agli edifici liberty, rischia dunque di svanire tra ambigue operazioni immobiliari, trascuratezza del verde e delle aiuole, perdita di attrattive, nonché gestioni mafiose di ristoranti e pizzerie. Speriamo che i residenti e la nuova amministrazione riescano a riportare Montecatini al lustro che la connotava! La città si trova in una posizione invidiabile, perfetta come base strategica per raggiungere località di grande interesse: il capoluogo Pistoia, Lucca, Pisa, perfino Firenze sono a breve distanza; i bellissimi borghi della Valdinievole sono a pochi minuti di auto, e senza fatica si arriva sul mare, a Viareggio, o in montagna, alle pendici dell’Abetone.Siamo dunque tornati a Lucca per rivedere la meravigliosa Ilaria del Carretto, o meglio il suo monumento funebre marmoreo, opera dello scultore senese Jacopo della Quercia (1374-1438) conservata nella Cattedrale di San Martino. Ci siamo poi spostati alla Casa natale di Giacomo Puccini (1858- 1924), in corte San Lorenzo 9 ( www.puccinimuseum.it ), dove si può visitare l’appartamento, restaurato, con alcuni mobili e suppellettili del grande compositore, di cui quest’anno ricorre il centenario della morte. Una casa-museo davvero interessante, con preziosi reperti e documenti musicali. Abbiamo quindi attraversato il bellissimo centro storico di Lucca, circondato da mura alberate, su cui è possibile passeggiare tranquillamente ammirandone il panorama. Nei giorni seguenti abbiamo optato per mete naturalistiche, ossia la Macchia Antonini e il Quercione o “Quercia delle streghe”. La prima, raggiunta percorrendo una strada in salita stretta e tortuosa, con diversi tornanti, che arriva a Femminamorta e poi prosegue, è una vasta foresta di alti faggi, abeti, castagni e cerri (molti centenari), a circa 960 m di quota: siamo in Val di Forfora, sulla Montagna Pistoiese. La Macchia, un patrimonio davvero inestimabile, si estende per più di 200 ettari nel territorio del Comune di Piteglio. Numerosi sentieri conducono all’interno del bosco, dove si gode una magnifica frescura; in un’area si trovano tavoli da picnic e strutture per cuocere ottime grigliate, anche se nelle vicinanze si trova un grazioso ristorante dove gustare polenta e funghi (pure ad agosto!). In un laghetto nei pressi di un campeggio nuotano numerose carpe e tartarughe. Fu l’ingegner Pellegrino Antonini (1763-1827), ricchissimo proprietario terriero, a lasciare l’intera tenuta in eredità alla sua città, Pistoia. Le sue spoglie riposano in una singolare cappella-tempietto (Cappella dei Morti) fatta da lui costruire come suo sepolcro ai margini della Macchia. Il “Quercione” si trova invece nei pressi di Capànnori, alla base della collina di Montecarlo: è una roverella (Quercus pubescens) monumentale, dall’età stimata di circa 600 anni, dal portamento grandioso, alta 15 m e con l’apertura dei rami fino a 30 m. La circonferenza del tronco, a 1,30 m, è di 4 m. La leggenda vuole che l’albero fosse prediletto dalle streghe del luogo, che vi si ritrovavano per i loro sabba nelle notti di plenilunio. Si racconta anche che ispirasse Carlo Lorenzini (Collodi) per la scena dell’impiccagione di Pinocchio, proprio a una quercia, da parte del Gatto e della Volpe. La frazione di Pescia da cui Lorenzini prese il suo pseudonimo, ossia Collodi, paese di origine di sua madre, è nelle vicinanze. Vi si trova la bella Villa Garzoni di cui attualmente è visitabile solo il giardino, insieme alla “Casa delle farfalle”. Peccato che il “Parco di Pinocchio” annesso sia di fatto solo un parco espositivo di sculture evocative, piuttosto statico e noioso; se fosse reso più attraente e dinamico, in modo intelligente, potrebbe divertire adulti e bambini di ogni Paese con la rievocazione “vissuta” della storia del burattino più famoso del mondo, e diventerebbe una meta turistica di grande richiamo, con vantaggi economici nel circondario per tutto l’indotto conseguente. Speriamo che qualche sponsor coadiuvato da un’Amministrazione illuminata possa investire nell’iniziativa! A Montecarlo, paese molto interessante dominato da un castello, abbiamo visitato il Teatro dei Rassicurati (1795), in via Carmignani 14, uno dei più piccoli d’Europa (chiedere all’Ufficio del Turismo, via Roma 56). La facciata è indistinguibile da quella delle case adiacenti; ma all’interno si rivela una bella sala ovale, elegantemente decorata, con due ordini di palchi e quattro barcacce (aggiunte nel 1894), dalla capienza di circa 170 spettatori. I restauri hanno ampliato il palcoscenico, davvero grande in proporzione al teatro, che fortunatamente è stato salvato negli anni ‘60 dalla demolizione grazie all’intervento di uno studioso (Mario Tori), insieme a Italia Nostra e al Comune. Ora è perfettamente fruibile: vi si alternano allestimenti di opere liriche e di drammaturgie sperimentali. Qui è stato presentato, l’8 agosto, a ingresso libero, lo spettacolo “L’altro Giacomo”, dedicato al Giacomo Puccini più intimo e “privato”, da un’idea del pugliese Renato Raimo, attore e regista sessantenne. Un bell’omaggio a Puccini nell’ambito delle celebrazioni per il suo centenario! Una lapide ricorda che “Poco più che adolescente in occasione delle stagioni d’opera delizia degli autunni montecarlesi” il compositore frequentò il Teatro dei Rassicurati insieme alla sorella Ramelde e vi tornò nel 1894, già famoso per il trionfo della sua “Manon Lescaut”, per assistere al melodramma di Vincenzo Bellini “La Sonnambula”. Non si può dimenticare che a poche decine di km da qui si trova Torre del Lago, frazione di Viareggio, sul lago di Massaciuccoli, dove Puccini eresse la sua residenza e dove volle essere sepolto. Quest’anno vi si tiene il 70° Festival pucciniano, nel Gran Teatro all’aperto: diciotto serate d’opera che si concluderanno, il 7 settembre, con “Madama Butterfly”. A Montecatini, in viale Giuseppe Verdi davanti al Cinema Imperiale, si trova una panchina con la statua di bronzo di Puccini, seduto con l’immancabile sigaro e il suo bastone, splendida opera dello scultore russo Aidyn Zeinalov, che l’ha donata nel 2016 al Comune. Lo stesso artista ha anche donato alla città un bellissimo Verdi di bronzo, statua posta davanti al teatro omonimo. Nato a Mosca nel 1978, Zeinalov è stato nominato nel 2018 membro dell’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze, la più antica al mondo. Musica, arte, cultura, natura, benessere: il nostro itinerario, pur breve, vi si è immerso completamente. Milano, 11 agosto 2024 Anna Busca LUGLIO 2024 UNA GITA NATURALISTICA NELLA VALLE DEL FREDDO In occasione della Giornata Mondiale della Conservazione della Natura (28 luglio) abbiamo optato per una meta a neppure un’ora e mezza d’auto da Milano, il cui nome evoca una situazione molto piacevole in una giornata afosa: si tratta della Riserva Naturale della Regione Lombardia “Valle del freddo”, alla testata della Val Cavallina, ai piedi del Monte Nà (la cui vetta supera di poco i 700 m), nel territorio comunale di Solto Collina (BG). La Riserva, un biotopo/geotopo molto interessante che copre un’area di 70 ettari, è visitabile (gratuitamente) solo in gruppi guidati ed è gestita dalla Comunità dei Laghi Bergamaschi (035/4349811, info@cmlaghi.bg.it, www.cmlaghi.bg.it ): si trova infatti a ridosso del lago d’Iseo, del lago di Gaiano e del lago di Endine, una bellissima zona il cui paesaggio è stato disegnato in particolare dall’ultima glaciazione, la Würm, che coinvolse le Alpi e che si può riferire a un periodo compreso tra i 100.000 e i 10.000 anni fa. Tutti i laghi sono di origine glaciale; la stessa Valle del Freddo ha la caratteristica sezione a U dovuta all’erosione da parte di un ghiacciaio, e vi si trovano testimonianze come massi erratici e detriti morenici. Il nome “Valle del Freddo” ha sostituito in tempi più recenti l’antico toponimo “Valle del diavolo”, forse più adatto, in realtà, a una situazione effettiva che non rispecchia l’idea di “frescura”: anzi, l’escursione, svolgendosi a bassa quota (circa 300-400 m) per circa un’ora, risente senz’altro delle temperature estive, come abbiamo sperimentato durante la nostra visita nel primo pomeriggio! Il nuovo nome ha comunque un’origine precisa. Risale al 1939 il ritrovamento nella valle, per circostanze fortuite (ben raccontate dalla giovane guida, Ambra, laureata in Scienze naturali e molto preparata), di specie floristiche come la Stella alpina, il Rododendro irsuto, il Raponzolo di Scheuchzer e molte altre, tipiche di quote ben più alte. Gli studi successivi consentirono di scoprire l’associazione di tali insolite presenze botaniche con particolari microclimi, dovuti a “bocche di alitazione” che emettono aria gelida, la cui temperatura è molto più bassa di quella dell’atmosfera circostante (anche 27 °C in meno!). Tali bocche sono aperture tra i detriti rocciosi, di origine glaciale, accumulati nei macereti, sotto i quali la pioggia e la neve cadute s’infiltrano e ghiacciano in inverno; in estate gli strati sovrastanti di ciottoli mantengono piuttosto bassa la temperatura conservando il ghiaccio: l’aria calda che si diffonde dall’esterno verso l’interno di tali strati si raffredda, quindi si appesantisce, scende dall’alto in basso per gravità e finisce per uscire dalle bocche, generando pertanto microambienti freddo-umidi. Durante la visita, che segue un percorso ben delimitato su un sentiero per evitare contaminazioni e danni al prezioso biotopo, abbiamo potuto avvicinare la mano a un paio di tali aperture, cogliendo il soffio gelato che ne usciva. Davvero un fenomeno singolare!Via via sono state presentate dalla guida le specie botaniche che si incontravano lungo il sentiero: oltre a numerosi ciclamini delle Alpi, all’”aglio delle streghe”, alla silene sassifraga, ecco due esemplari di Stella alpina, specie che normalmente cresce a 1500-2600 m. Frequenti anche i larici, conifere a foglie caduche dei boschi montani. Il paesaggio è reso ancora più complesso dalla presenza della prateria arida, ecosistema caratterizzato da piante macrotermiche; si ritrova frequentemente il ginepro comune. Dal punto di vista geologico, la zona appartiene alle Prealpi lombarde, ossia ad un settore alpino calcareo le cui rocce ebbero origine, circa 200 milioni di anni fa, dai sedimenti carbonatici dei fondali appartenenti all’antico mare della Tetide. La convergenza continentale tra la placca africana e la placca euroasiatica portò successivamente al sollevamento di porzioni di crosta comprendenti le rocce suddette, ed alla formazione della catena alpina. La roccia in cui è scavata la Valle del Freddo è il calcare di Zorzino, nerastro, impregnato di acido solfidrico derivato dalla decomposizione putrefattiva (in ambiente privo di ossigeno) di organismi marini di acque stagnanti, in bassi fondali. Sfregando tra loro due ciottoli, ecco il caratteristico odore di uova marce! Anche la fauna presenta notevole interesse: tra i mammiferi sono presenti volpi, faine, cervi, caprioli, lepri, ma non mancano rettili, tra cui la Vipera aspis, e molte specie di uccelli e di insetti. Un sentiero didattico – che può essere percorso liberamente, senza guida - illustra la zona e le tappe più interessanti. La Riserva è una sorta di grande libro aperto di ecologia, in cui si può entrare cogliendo moltissimi spunti di approfondimento e di riflessione. I mesi dedicati alle visite guidate sono attualmente solo maggio, giugno e luglio; è in progetto un potenziamento degli orari di visita, per aumentarne la possibilità di fruizione: appassionati di scienze, amanti della natura, famiglie e semplici curiosi sono quindi avvisati!Milano, 30 luglio 2024 Anna Busca IN PIEMONTE, SULLE TRACCE DEGLI ANTENATI Una ricerca genealogica, riguardante antenati piemontesi, è stata lo spunto per dedicare tre giorni (con due pernottamenti) ad una zona compresa tra il basso torinese e il cuneese, scoprendo - o riscoprendo- luoghi davvero interessanti e meritevoli di una visita. L’inizio del nostro tour in realtà non è stato entusiasmante: la prima sosta è stata necessariamente a Pieve di Scalenghe, paese rivelatosi piuttosto insignificante, disperso nella campagna coltivata, paesaggio che connota tutte le località circostanti. Nei pressi, desta qualche interesse il castello di Buriasco, risalente al XIV secolo, molto rimaneggiato e non visitabile. Ma è la vicina Pinerolo, che Edmondo De Amicis considerava “la città più bella del Piemonte”, a costituire la meta principale: il suo territorio comprende pianura, collina e montagna; la città si estende intorno alla vastissima piazza Vittorio Veneto, progettata nel 1738 e utilizzata per quasi un secolo come piazza d’armi. Vi si affaccia Palazzo Vittone (1740), opera di un allievo di Filippo Juvarra, ora museo e sede di esposizioni. Molto bella la cattedrale di san Donato, nella piazza omonima, costruita tra il XIV e il XV secolo e più volte restaurata; la facciata fu rifatta all’inizio del XIX secolo, in quanto distrutta dal forte terremoto del 2 aprile 1808 (magnitudo stimata pari a 5,7). L’interno, a tre navate, è impreziosito da affreschi sulle colonne e sulle volte. A Pinerolo si trova la casa in cui “nacque, visse e morì l’avv. Luigi Facta” (1861–1930), ultimo Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia prima dell’avvento di Benito Mussolini. Si era laureato in Giurisprudenza a Torino a soli diciotto anni ed era entrato in politica appena ventitreenne. Si autodefiniva “giolittiano dalla personalità sbiadita”... A poca distanza, verso sud, eccoci a Cavour, il cui nome ci ricorda inevitabilmente una fondamentale figura del Risorgimento, il torinese Camillo Benso (1810 –1861), che aveva il suffisso onorifico di “conte di Cavour”, tanto da diventare noto con tale appellativo sia da deputato che da senatore, ministro e primo ministro del Regno di Sardegna. Il nome Cavour ha un’origine incerta, forse da un’antica tribù celtico-ligure, i Caburriates. Il centro è dominato dalla bellissima Rocca, una sorta di “inselberg” (montagna-isola) o “monadnock” (collina-isola) che si erge in mezzo alla campagna, fino a circa 160 m di altezza, ricoperta da boschi di latifoglie, con essenze legate a diversi microclimi. Anche l’avifauna è di particolare interesse, tanto che la Rocca è considerata Riserva Naturale Speciale ed è inserita nel Parco del Po cuneese. Dal punto di vista geologico si tratta di un enorme blocco di gneiss, roccia metamorfica di origine granitica, rimasto isolato per gli effetti erosivi di fiumi e torrenti. In circa mezz’ora si sale a piedi, dopo la Scala Santa dietro il campanile parrocchiale, passando accanto alla villa Giolitti - il grande statista Giovanni Giolitti aveva la madre cavourese di nascita, morì a Cavour nel 1928 - su una stradina ombreggiata da cui si dipartono diversi sentieri, fino al “Pilone della Vetta”. Il monumento fu voluto nel 1931 dagli ex combattenti della Grande Guerra in onore dei caduti della Battaglia di Staffarda – svoltasi durante la Guerra della Grande Alleanza - persa dall’esercito sabaudo di Vittorio Amedeo II contro i francesi del generale Nicolas de Catinat, nel 1690. Il panorama da lassù, a 360°, è splendido, verso la pianura e la cerchia delle Alpi. Si trovano anche i resti di un castello e una rosa dei venti con utili indicazioni geografiche. Si può poi raggiungere una panca gigante giallo-rossa, installata nel 2021 in magnifica posizione, opera del designer americano Chris Bangle, che insieme alla moglie Catherine è responsabile dell’originale BBCP, Big Bench Community Project, per sostenere il turismo locale. Questa è la panchina gigante n. 158! Le altre sono sparse soprattutto sulle Langhe, ma anche in altre località. Ai piedi della Rocca si visita la settecentesca Chiesa di san Lorenzo, con un raro e prezioso soffitto a cassettoni con rosoni in legno dorato. Nella piazza, l’interessante Tettoia Mercatale del XVI secolo.Da Cavour ci siamo spostati, passando davanti alla stupenda Abbazia di Staffarda, cistercense, fondata a Revello nel XII secolo, una delle più antiche in Italia (purtroppo chiusa) - devastata dai francesi nella battaglia già citata - a Saluzzo. Capitale di un antico marchesato che dominò il Piemonte sud-occidentale tra il XII e il XVI secolo, la città conserva palazzi, torri, chiese, monumenti che ne testimoniano la storia e la nobiltà. La Castiglia (dal latino castella, castelli), nella parte alta, era una fortezza del XIII secolo che successivamente, in occasione delle sue seconde nozze con Margherita di Foix-Candale nel 1492, il marchese Ludovico II (1438 –1504) volle trasformare in residenza signorile. Furono affrescati saloni, fu eretto un torrione; tuttavia le risorse economiche del marchesato erano già in crisi per le ingenti spese militari sostenute nelle sfortunate campagne contro i Savoia, e il castello cominciò presto un’inarrestabile decadenza. Nel 1825 fu convertito in prigione, destinata ad essere il primo grande carcere del Regno Sabaudo; vi fu inaugurata nel 1828 la Casa di reclusione e di lavoro. Questa sua funzione, che contribuì a distruggere decorazioni e parti dell’edificio, rimase fino al 1992. Nel penitenziario di Saluzzo furono detenuti anche brigatisti rossi, come Alberto Franceschini, fondatore del gruppo terrorista insieme a Renato Curcio, nel 1970. Entrambi furono arrestati a Pinerolo nel settembre 1974, grazie soprattutto all’azione del Nucleo Speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (nato proprio a Saluzzo, nel 1920). Ora la Castiglia, restaurata, ospita l’Archivio storico e due musei di grandissimo interesse: uno della Memoria Carceraria, nel semi-interrato, e l’altro, al terzo piano, della Civiltà Cavalleresca. Il primo consente al visitatore di entrare nelle celle, ripercorrendo le storie di chi – briganti, ladri, assassini – fu incarcerato e spesso giustiziato; reperti, documenti, graffiti, installazioni, ologrammi, ricostruzioni di ambienti, a volte davvero impressionanti, si susseguono lungo corridoi squallidi e inferriate. Il manichino-parlante del brigante Francesco Delpero, impiccato a Bra nel 1858, rievoca le terribili condizioni delle carcerazioni ottocentesche. Anche alla relegazione per motivi politici o religiosi (come la persecuzione contro i valdesi) si è dedicato un ampio spazio espositivo. Il secondo museo è estremamente raffinato: in undici sale, attraverso documenti e un’eccellente iconografia, si raccontano le vicende del Marchesato di Saluzzo, descrivendo l’arte della cavalleria, la nascita dell’araldica, i collegamenti con la letteratura cavalleresca italiana ed europea. Tra le chiese che meritano assolutamente una visita si possono citare la gotica chiesa di San Giovanni, dal magnifico interno a tre navate, dove, a sinistra, si può ammirare il sepolcro di Ludovico II (1508), opera dello scultore Benedetto Briosco, e la bellissima cattedrale di Maria Vergine Assunta, il Duomo della città, edificato alla fine del ‘400; si ammirano affreschi ottocenteschi in stile neogotico e un prezioso polittico del fiammingo Hans Clemer (1480-1512), in una cappella della navata sinistra. Passeggiando s’incontra la casa natale di Silvio Pellico, un edificio di origine medioevale dove il famoso autore de “Le mie prigioni” nacque il 25 giugno 1789, trascorrendovi poi la prima infanzia; è ora una casa-museo, aperta però solo nel pomeriggio della seconda e della quarta domenica del mese, dunque difficilmente visitabile.Cuneo, capoluogo di provincia, dista circa 17 km da Saluzzo: siamo arrivati nel tardo pomeriggio della seconda giornata, per un apericena sotto i portici della splendida via Roma, un asse che parte dalla grandissima piazza Galimberti (dedicata all’eroe della Resistenza italiana Tancredi, detto “Duccio”, fucilato dai nazisti nel 1944), estesa per 24.000 mq, fino a una sorta di vertice di un vero e proprio “cuneo” tra i torrenti Gesso e Stura, che qui confluiscono. La città, di cui si hanno notizie certe a partire dal XIII secolo, fu usata dai Savoia come avamposto militare antifrancese e ha un impianto urbanistico a scacchiera. Molto belli e in genere ben restaurati i palazzi del ’700 e dell’ ’800 lungo via Roma e sulla piazza. Nel terzo e ultimo giorno del nostro tour piemontese abbiamo raggiunto Fossano, sovrastata dal trecentesco castello dei Principi di Acaja, aperto solo per visite guidate, da prenotare, da mercoledì a domenica (quindi l’abbiamo trovato chiuso). La città fu fondata nel 1236 e ha un centro storico d’interesse, con edifici medioevali e chiese barocche, come quella dei “Battuti Rossi”; si può costeggiarlo percorrendo una passeggiata panoramica che si affaccia sulla Valle Stura. La strada del ritorno ha toccato Bra, cittadina che merita senz’altro una visita meno frettolosa della nostra, e Asti, dove ci siamo fermati per uno spuntino in un locale davanti alla bellissima Collegiata di San Secondo, gotica, risalente al XIII secolo. Il duomo, la Cattedrale di Santa Maria Assunta, ci è parso invece trascurato, in una zona semideserta, con intorno un prato ridotto a uno sterrato polveroso. Ad Asti nacque il grande Vittorio Alfieri (1749-1803) cui è dedicata una grande piazza – utilizzata per il Palio e per concerti - e il corso principale. Il conte Alfieri scriveva “ Ahi fiacca Italia, d’indolenza ostello (…) sorda e muta ti stai ritrosa al bello?”. Forse questi versi sono ancora attuali, molto si deve e si può fare ancora per valorizzare al meglio le risorse – spesso nascoste - del nostro meraviglioso Paese. Indirizzi utili: Hotel Villa Glicini, via Valpellice 68/A, 10060 San Secondo di Pinerolo (TO) Antica Villa Cuneo-Guest House, via Castelletto Stura 241 fraz. San Biagio, 12044 Roata Boerino (CN)19 luglio 2024, Anna Busca GIUGNO 2024 DUE GIORNI NELLA CITTA’ MAGICA Torino fa parte del cosiddetto “triangolo magico” di città europee, insieme a Praga e a Lione: e trascorrervi un paio di giornate di fine giugno, tra arte, musica e storia, può essere davvero una scelta fantastica, anche per chi, come noi, vi è già stato più volte. Siamo partiti col Flixbus ( https://www.flixbus.it/ ) da Milano un giovedì mattina per rientrare il venerdì seguente nel tardo pomeriggio: il viaggio è durato poco più di due ore per tratta e può essere decisamente più economico del treno, se si prenota in tempo utile (la spesa per un ticket A/R è stata di circa 10 euro). Per il pernottamento con colazione inclusa abbiamo scelto il B&B Ai Savoia (https://aisavoia.altervista.org/ ), centralissimo, in un palazzo storico, con un ottimo rapporto qualità/prezzo. Prima di raggiungerlo ci siamo fermati per pranzo in un locale prenotato tramite The Fork (sconto del 50%), il Ristorante del Duomo Bicerin, a due passi da piazza Castello: piccolo e semplice, è in grado di offrire buoni piatti di cucina piemontese. Nel pomeriggio, approfittando del cielo sereno, abbiamo optato per una lunga passeggiata a piedi. Percorrendo tutti i portici di via Po siamo arrivati alla Gran Madre di Dio, attraversando il fiume sul Ponte Vittorio Emanuele I. Da qui, risalendo la collina lungo una strada dalla pendenza accettabile, non troppo faticosa sotto il sole, abbiamo raggiunto la meta: la splendida Villa della Regina, Patrimonio dell’Unesco. È una residenza reale sabauda, di origine seicentesca, costruita dal principe Maurizio di Savoia, che aveva rinunciato alla porpora cardinalizia per sposare la nipote tredicenne Ludovica, di trentasei anni più giovane. Dopo la loro morte la villa divenne luogo di delizie per diverse regine e per la corte sabauda del ‘700; ospitò anche Napoleone durante l’occupazione francese. Fu ceduta nel 1868 da Vittorio Emanuele II, per donazione, e divenne l’Istituto Nazionale delle Figlie degli Ufficiali che avevano combattuto per le guerre d’indipendenza. Purtroppo iniziò così un lento degrado: la villa via via perse arredi, dipinti, decorazioni e perfino intere stanze, adattate a camere da letto, aule, servizi igienici. I bombardamenti della II guerra mondiale causarono poi gravissimi danni e distruzioni; il collegio femminile fu chiuso nel 1943 e seguirono anni di totale abbandono, tanto che l’edificio, oltre a essere depredato, fu invaso e quasi sepolto dalla vegetazione circostante. Al posto del bellissimo parco e delle eleganti fontane, solo erbacce, rovi e pietre in rovina. Nel 1994 la Soprintendenza alle Belle Arti iniziò finalmente le necessarie e impegnative opere di restauro, che terminarono nel 2007, anno in cui la villa fu aperta alle visite. In realtà i lavori devono essere ancora completati: si confida nei fondi del PNRR! Gli interni sono davvero magnifici: stupende le camere affrescate del primo piano, gli stucchi, i Gabinetti Cinesi. Il panorama dalle terrazze del parco – considerato tra i più belli d’Italia, ad anfiteatro, con magnifici tappeti erbosi - e dai diversi belvederi è imperdibile. La vista spazia su tutta la città, su cui svetta la Mole Antonelliana; se l’aria è limpida, appaiono vicinissime le cime delle Alpi. Alla sera ci siamo recati al famoso Teatro Regio (https://www.teatroregio.torino.it/ ), in piazza Castello, uno dei più grandi d’Europa: avevamo i biglietti per assistere al “Trittico” di Giacomo Puccini, ossia a Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi, tre opere ben distinte ma collegate sia dalla splendida musica del compositore toscano che dall’aspetto peculiare dello scavo profondo nei sentimenti dell’animo umano (vedi Www.Corrierebit.com/musica.htm per la recensione). Il Teatro Regio, risalente al 1740 ma completamente distrutto da un terribile incendio nella notte tra l’8 e il 9 febbraio 1936, fu ricostruito nel 1973; è stato meravigliosamente trasformato dagli ultimi restauri: splendida illuminazione, ottima acustica, comodissime poltrone di velluto rosso, ampi spazi davvero eleganti. La mattina seguente eccoci ai Musei Reali per la mostra “Guercino. Il mestiere del pittore”, aperta fino al 28 luglio 2024: magnifica l’esposizione di circa 100 dipinti – alcuni di artisti coevi – raccolti da diversi musei, anche a Vienna e Madrid, in diverse sezioni. Straordinari capolavori di Giovanni Battista Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591 – Bologna, 1666), tra i tanti ammirati, sono certo Il ritorno del figliol prodigo (1619), Venere, Cupido e Marte (1633), Cleopatra morente (1648). https://museireali.beniculturali.it/events/guercino-il-mestiere-del-pittore/ L’ultima visita, prima di far ritorno a Milano (con sosta d’obbligo allo storico Caffè Platti di corso Vittorio Emanuele II) ha riguardato un luogo molto particolare, ben inserito nella Torino “magica”: si tratta del Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso”,(https://www.museolombroso.unito.it/ ) che si può raggiungere con una bella passeggiata al Valentino, sul lungo Po. Appartiene all’Università di Torino ed è stato inaugurato nel 2009. Marco Ezechia Lombroso detto Cesare (Verona, 1835 – Torino, 1909) era un medico appassionato di antropologia, psichiatria e scienze giuridiche. Aderì alla fisiognomica, una corrente di pensiero che affondava le radici in particolare nella filosofia aristotelica e che aveva avuto grande successo soprattutto nel Rinascimento; diventò molto popolare nel ‘700 e ‘800. Le idee fondanti della fisiognomica sostenevano – in modo del tutto arbitrario - la correlazione tra tratti somatici e comportamenti umani. Lombroso applicò questo concetto cercando di utilizzare il metodo scientifico per dimostrarne la validità, nell’ambito della criminologia, di cui può essere comunque considerato, a ragione, uno dei fondatori. Misurando le dimensioni della scatola cranica e dei cervelli, studiando ossa, malformazioni, diametri facciali, prognatismi e quant’altro, Lombroso provò a correlare alcuni caratteri con tendenze delittuose, per esempio al furto, allo stupro, all’omicidio: gli studi riguardavano detenuti morti in carcere, cadaveri di giustiziati e di ricoverati in manicomio. Le donne venivano considerate, per alcune loro misure somatiche, “grandi bambini”, emotive più che razionali, incapaci di astrazione e sostanzialmente inferiori agli uomini: un vero, subdolo attacco al movimento per i diritti delle donne (che proprio alla fine dell’’800 iniziavano a rivendicare un cambiamento di ruoli e di status), mascherato da lavoro “scientifico”... È comunque da ricordare che Lombroso sostenne il diritto al divorzio, per ridurre i delitti domestici. Nel museo è presente, oltre allo scheletro dello stesso Lombroso, da lui donato per studio all’università, una vasta collezione di crani, maschere facciali di cera, corpi del reato, disegni di tatuaggi, fotografie di delinquenti e molti altri reperti che rendono la visita davvero interessante. Si comprende come Lombroso tentasse una sorta di sintesi fra la fisiognomica – in realtà una pseudoscienza, poi abbondantemente confutata – e le idee evolutive darwiniane, insieme alla paleoantropologia, alla genetica mendeliana e perfino alla psicoanalisi freudiana. Si scopre anche che non disdegnava sedute spiritiche, verso le quali passò da un iniziale, forte scetticismo, legato alla convinzione che si trattasse di manifestazioni truccate da svelare grazie alla scienza, a una forma di stupore davanti a quanto vedeva accadere, di cui non riusciva a trovare adeguate spiegazioni, fino all’ipotesi che durante la trance dei medium si annullassero le leggi della fisica, come la gravità, l’impenetrabilità della materia, le regole dello spazio e del tempo...Un’interpretazione davvero adatta ad una città magica! 30 giugno 2024, Anna Busca UN MINI-WEEKEND AL LAGO, TRA STORIA E PAESAGGIO Partire un venerdì mattina di giugno da Milano per il lago di Garda e tornare nel tardo pomeriggio di sabato può essere una scelta vincente, per ritagliarsi una breve pausa piacevolissima (e di grande interesse) evitando il traffico sull’A4. Siamo giunti dopo circa due ore di viaggio tranquillo a Mòniga del Garda, dove abbiamo parcheggiato nei pressi del castello, posto sopra un’altura. Risalente al X secolo, aveva scopo difensivo, in quanto serviva come rifugio agli abitanti in caso di scorrerie barbariche. Ricostruito nel XIV-XV secolo, conserva una cinta muraria ben preservata; si entra attraverso un ingresso ad arco, sotto una torre, e si può camminare tra case di pietra e bassi edifici molto curati, dai davanzali pieni di fiori. Le alte mura merlate si affacciano, dalla parte opposta, su un vasto prato, utilizzato dal Comune per eventi. Scendendo verso la spiaggetta, si incontrano le indicazioni per il Chiosco al Castello, dove si può mangiare un boccone su un bel terrazzino panoramico. Ripresa l’auto, siamo arrivati in pochi minuti all’Hotel Belvedere di Manerba, dove avevamo prenotato le camere tramite Booking: davvero un ottimo indirizzo. Una splendida piscina a sfioro su una grande terrazza vista lago ci ha consentito, nonostante il cielo un po’ nuvoloso, di goderci nel primo pomeriggio una sosta rinfrescante, con qualche nuotata e un meritato riposo sulle sdraio. Ci siamo poi incamminati per una passeggiata, su indicazione dell’addetto alla reception, verso la romanica Pieve Vecchia, che si raggiunge a piedi in poco più di mezz’ora, su una stradina in mezzo al verde, tra ulivi e cipressi. Dedicata a Santa Maria, se ne ha notizia certa già nel 1145, in quanto citata in una bolla papale: l’interno, a tre navate, è molto suggestivo, con resti di affreschi e un bel pulpito ligneo. Accanto, si erge un alto campanile. Proseguendo lungo la strada, ci siamo diretti verso il parco naturale della Rocca di Manerba, salendo al sito archeologico: a circa 200 m di quota sulla cima, contrassegnata da una grande croce metallica, si gode un panorama eccezionale a 360° sul lago e dintorni. Il luogo, già nell’età del bronzo, era sede di riti sacrificali; in epoca romana fu dedicato al culto di Minerva (il nome “Manerba” deriva proprio dal nome della dea), alla quale fu eretto un santuario. Si cammina in realtà all’interno dei resti di un castello medioevale, costruito tra l’VIII e il XV secolo a scopo difensivo, i cui cinti murari sono ancora visibili. Gli scavi nella zona intorno al sito hanno messo in evidenza tracce e reperti di una villa del I sec. d.C., e di una necropoli. Il Museo Civico Archeologico della Valtènesi, lungo la strada che porta alla Rocca, espone ceramiche, anfore, punte di freccia, resti di palafitte: in estate vengono organizzate, in alcune occasioni, visite guidate seguite da un apericena. Sulla via del ritorno ci siamo fermati a bere un’ottima birra, accompagnata da Bratwurst con crauti e patate, a un tavolo all’aperto di un locale, il Grillgarden - molto frequentato da turisti tedeschi - che ci ha fatto pensare di essere in Baviera... Il giorno seguente, dopo un’ottima colazione, ci siamo diretti in auto verso Salò, che abbiamo in realtà raggiunto a piedi con una piacevole camminata lungo una pista ciclopedonale. La strada d’accesso era infatti temporaneamente chiusa per il passaggio della Mille Miglia, storica competizione automobilistica (quasi centenaria) sul percorso Brescia – Roma – Brescia (circa 1600 km, ossia “1000 miglia”), che nel tempo ha visto alterne vicende soprattutto legate a tragici incidenti - nel 1938 e nel 1957 - e alla seconda guerra mondiale. Questa edizione si è svolta dall’11 al 15 giugno, e si è praticamente conclusa con la magnifica “passerella” di decine e decine di auto d’epoca a Salò, accolte festosamente da una folla di spettatori in attesa, muniti di striscioni e bandierine. Nonostante la manifestazione e l’inevitabile afflusso di turisti siamo riusciti a passeggiare tranquillamente costeggiando il lago, dalle acque trasparenti e pulitissime, per poi fermarci al bar – bistrot Ziglioli di piazza Zanardelli, per un veloce spuntino. Salò si stende al centro di un’ampia insenatura, di fronte a Portese, punto d’imbarco di San Felice del Benaco, e presenta un elegante porticciolo. Si respira un’atmosfera molto gradevole e davvero vacanziera. La visita al MuSa (Museo di Salò, via Brunati 9, www.museodisalo.it ) ha poi reso la giornata ancora più interessante. Molto valide le opere di una collezione privata esposte nella bella mostra “Dallo splendore alle incertezze, 1910 – 1950” (fino all’8 settembre), con numerosi dipinti e un paio di sculture dalla Belle Époque al secondo dopoguerra: da Angelo Landi ad Adriana Bisi Fabbri, da Ardengo Soffici a Mario Sironi. In altre sale del museo si possono ammirare la preziosa raccolta di lavori del pittore Antonio Maria Mucchi (1871-1945), ritrattista e vedutista di Fontanellato, nonché strumenti musicali correlati al liutaio Gasparo da Salò (1540-1609), considerato l’inventore del violino moderno; inoltre, la sezione dedicata agli strumenti dell’ottocentesco Osservatorio Metosismico Pio Bettoni e quella sui preparati anatomici del medico salodiano Giovan Battista Rini (1795-1856), che operava sui cadaveri con tecniche di “corrosione” per mettere in luce vasi, nervi, strutture di organi, a scopo didattico, dà un contributo originale a un percorso di storia della scienza. Ma è la sezione più recente, inaugurata nel 2023 e intitolata “L’ultimo fascismo, 1943-1945. La Repubblica sociale italiana” a farci fare un vero tuffo nella storia. La mostra è molto ben curata e documentata: fotografie, filmati, registrazioni, lettere, oggetti, ricostruzioni (anche quella di un rifugio antiaereo) accompagnano il visitatore a ripercorrere quei terribili mesi, dalla caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 voluta dal Gran Consiglio del fascismo, seguita dall’8 settembre, data del comunicato ufficiale, da parte di Badoglio, dell’armistizio di Cassibile. L’Italia, che stava vivendo già da tre anni l’orrore del conflitto mondiale, si trovò divisa in due parti, una a sud occupata dagli angloamericani e l’altra a nord occupata dai tedeschi; precipitò nel caos e, di fatto, in una drammatica guerra civile. Il lago di Garda divenne strategico per Mussolini (liberato da paracadutisti tedeschi, il 12 settembre, dalla prigionia del Gran Sasso): qui, a Salò, fonda lo “Stato fascista repubblicano”, subito denominato Repubblica Sociale Italiana, una sorta di “Stato fantoccio” tedesco; a Gargnano, più a nord, fissa la sua residenza e la sede della Presidenza del Consiglio. Le vicende sanguinose e le tappe politiche e belliche che ne seguirono, fino al 1945, sono ben illustrate lungo il percorso, che non è mai noioso o solo didattico: risulta anzi coinvolgente e molto istruttivo per il visitatore, una sorta di “bolla del tempo”. E a malincuore, dispiaciuti di non poter restare ancora sul lago “di una bellezza indicibile”, dove “tutto è azzurro, come un’ebbrezza improvvisa”, secondo quanto scriveva nel 1917 D’Annunzio, che a Gardone fece costruire pochi anni dopo la sua ricchissima residenza, il famoso Vittoriale, ritorniamo a Milano.16 giugno 2024 Anna Busca APRILE 2024 Un pomeriggio primaverile e soleggiato può essere ben speso, per chi abita a Milano, in un piacevole giro, in buona parte a piedi, che coniuga bellezze artistiche, storia e natura. Con la linea gialla della metropolitana siamo scesi al capolinea di San Donato Milanese; da qui, dopo una passeggiata di circa un quarto d’ora lungo il viale alberato – via Caviaga - che costeggia il vasto Parco Enrico Mattei, siamo arrivati alla grande piazza dominata dalla chiesa di Santa Barbara, da cui prende il nome. L’edificio, costruito nel 1954 per Metanopoli su commissione di Mattei, è un pregevole esempio di architettura religiosa, dovuta al progetto dell’architetto Mario Bacciocchi. La facciata a capanna con i colori del Rinascimento fiorentino, il campanile laterale alto e stretto, il portone centrale in bronzo di Arnaldo e Giò Pomodoro sono già ammirevoli: l’interno stupisce per l’ampiezza della navata, che presenta un bel soffitto a pannelli dipinti di Andrea Cascella e uno stupendo, grandissimo mosaico absidale, la Crocifissione di Fiorenzo Tomea, ben illuminato dal lucernario, nonché diverse opere d’arte quali la Via Crucis di Pericle Fazzini e le pale di Bruno Cassinari. Santa Barbara è considerata la patrona dei minatori, e il nome fu scelto in quanto legato alle attività minerarie dell’ENI. In questa chiesa, la mattina del 29 ottobre 1962, fu dato l’ultimo saluto al suo presidente Enrico Mattei, insieme al pilota Irnerio Bertuzzi e all’americano William MacHale, periti nell’attentato di due giorni prima al Morane Saulnier -decollato da Catania - su cui volavano; le salme furono poi traslate a Roma per i funerali di Stato. Mattei, infine, fu sepolto nella tomba di famiglia del cimitero di Matelica. Come scrisse all’epoca la Gazette de Lausanne, Mattei “non era soltanto un grande capitano d’industria, ma anche un uomo simpatico ed integro; un uomo che è riuscito nel suo compito”; pertanto, si conserverà di lui “un ricordo incancellabile”.Proseguendo, con una camminata di una ventina di minuti si raggiunge, in fondo a via Cesare Battisti, la piazza delle Arti; qui si trova la Cascina Roma, restaurata trent’anni fa e trasformata in un attivo centro culturale. L’ingresso è gratuito e vi si possono ammirare mostre fotografiche, consultare libri e riviste in una bella emeroteca, ascoltare concerti o partecipare ad eventi. Il nome trae origine dai proprietari di quello che fu un antico palazzetto nobiliare, gli Orsini, che provenivano da Roma. Il restauro ha conservato soffitti in legno e qualche affresco. Il luogo ha anche una notevole importanza storica: fu il quartier generale del maresciallo Radetzky nel 1848 e qui, la sera 4 agosto di quell’anno, dopo la sconfitta subìta da Carlo Alberto nella battaglia di Milano – Prima Guerra d’Indipendenza - di quello stesso giorno, si svolse una riunione con un’ambasceria sabauda, al termine della quale si stipulò una Convenzione pre-armistizio tra austriaci e piemontesi. Il vero armistizio fu poi firmato cinque giorni dopo, a Vigevano, dai generali Carlo Canera di Salasco e Von Hess (Armistizio di Salasco). Lasciata Cascina Roma, si torna indietro per un tratto, portandosi sulla via Emilia e seguendo una strada che consente di oltrepassare la ferrovia e l’A1, tramite sottopassi (meglio seguire le indicazioni del navigatore satellitare, mancando la segnaletica per percorsi pedonali o ciclabili). Questa parte della passeggiata è più impegnativa e richiede almeno un’ora: la meta è la meravigliosa Abbazia di Chiaravalle, che si raggiunge camminando tra prati e pioppi, in un bel paesaggio campestre del Parco agricolo Sud Milano. Del XII secolo, questa affascinante abbazia cistercense è uno dei primi esempi di architettura gotica in Italia: la sua descrizione merita diverse pagine e certo non un semplice articolo! Anche un frettoloso visitatore del complesso monastico non può non ammirare il coro ligneo del ‘600, gli affreschi trecenteschi, le cappelle, il chiostro, la torre detta “Ciribiciaccola”. Una sosta rinfrescante è possibile in uno spazio all’aperto gestito da un piccolo bar, oppure al “Ristoro dell’Abbazia”, dove si possono acquistare anche marmellate, amari, biscotti, saponi o profumi con il logo di Chiaravalle. Il ritorno verso Milano si può svolgere sempre a piedi attraverso il parco della Vettabbia, in mezzo al verde (in alternativa: autobus 77 direzione Corvetto, la fermata è a pochi metri dall’ingresso all’Abbazia). Il percorso a piedi, di poco più di un’ora, porta appunto nei pressi di piazzale Corvetto, dove si può riprendere l’M3. La passeggiata può anche prevedere l’inversione delle tappe (Abbazia di Chiaravalle – Cascina Roma - Chiesa di Santa Barbara), con l’andata a piedi e il ritorno in metropolitana dalla stazione di San Donato Milanese.25 aprile 2024, Anna Busca Un paio di giorni, durante le vacanze pasquali, nella Pianura Padana tra le province di Modena, Reggio Emilia e Parma, sfiorando quella di Mantova, ci ha consentito di scoprire dei veri tesori, un po’ nascosti e assolutamente meritevoli di maggiore pubblicità per il turismo culturale. Partendo da Milano in auto e percorrendo l’A1, siamo usciti verso Verona/Brennero (E45/A22) al casello di Carpi, nostra prima meta, raggiunta in poco più di due ore. La città rivela, nel centro storico, un pregevole impianto rinascimentale dovuto al principe umanista Alberto III Pio di Savoia (Carpi 1475 – Parigi 1531), primogenito del co-signore di Carpi Lionello I e di Caterina Pico, sorella del famoso Giovanni Pico della Mirandola, il quale indirizzò il nipote verso Aldo Manuzio, per la sua educazione ed istruzione. Alberto crebbe quindi tra intellettuali e artisti; pur essendo un abile diplomatico, ebbe vicende travagliate, che portarono alla fine la contea di Carpi ad essere consegnata definitivamente come feudo ai duchi d’Este di Ferrara, nel 1530. Alberto fu infatti sconfitto, insieme agli alleati francesi e ai Gonzaga, nella battaglia di Pavia del febbraio 1525, contro l’imperatore Carlo V; morì pochi anni dopo in esilio in Francia, e alle sue esequie partecipò anche Francesco I. A Baldassarre Peruzzi (1481-1536), noto architetto e pittore toscano molto stimato a Roma, Alberto III aveva commissionato, nel 1515, una serie di lavori: una nuova facciata della chiesa romanica di Santa Maria al Castello, il progetto del Duomo e della sua piazza, il rifacimento del Palazzo dei Pio e la risistemazione dell’assetto urbanistico della città di Carpi. Spicca dunque una piazza immensa, di circa 16.000 mq di superficie, chiusa da un lato dal Portico Lungo, con una cinquantina di arcate dalle belle decorazioni in cotto: piazza dei Martiri è in effetti una delle più grandi d’Italia, un tempo denominata Vittorio Emanuele II; cambiò nome nel secondo dopoguerra, in omaggio alle sedici vittime dell’eccidio fascista del 16 agosto 1944, compiuto come rappresaglia dopo l’uccisione del capo della milizia da parte dei partigiani. Ai Martiri di Carpi è dedicato anche un monumento. Sulla piazza si affaccia la basilica cattedrale di Santa Maria Assunta, dalla facciata color giallo-arancio, in stile barocco: il duomo fu infatti completato alla fine del ‘700. L’interno è a tre navate e ha mantenuto la preziosa architettura rinascimentale del Peruzzi; interessanti i numerosi dipinti del ‘600 e le tombe vescovili. Danneggiata dal terremoto del 2012, la Cattedrale dell’Assunta fu riaperta nel 2017. Proseguendo nella piazza, si costeggia per circa 160 metri un lato del grande castello, ossia il Palazzo dei Pio, costituito da diversi edifici costruiti in epoche diverse. I Pio, che governarono Carpi fin dal 1327, fecero costruire una rocca fortificata intorno a una torre – detta del Passerino – e successivamente la trasformarono in un palatium. La residenza signorile voluta da Alberto III presentava due appartamenti nobili decorati, un cortile d’onore, loggiati e saloni. In parte è stata modificata e demolita da interventi successivi (aggiunzione estense, interventi della famiglia Scacchetti di fine ‘700- inizio ‘800, danni da usi impropri), ma ha mantenuto strutture che rendono la visita di grande interesse (chiusura il lunedì). Si salgono scaloni imponenti e si raggiungono i piani superiori, dove si può ammirare la bellissima cappella dei Pio, affrescata all’inizio del ‘500 dal pittore parmense Bernardino Loschi (1460-1540), con scene della vita di Cristo; vi sono anche splendidi medaglioni in terracotta invetriata di Andrea della Robbia (i quattro evangelisti). Sulla parete destra è raffigurato il principe Alberto, dedicatario della cappella, insieme al precettore Manuzio. In una sala è possibile ammirare quello che resta dell’antica facciata cinquecentesca, ossia decorazioni ispirate all’antica Roma e agli imperatori, opera del pittore forlivese Giovanni del Sega (1450-1527). Alla storia di Carpi è dedicata un’ala, dove si trovano documenti, video, sculture: particolarmente interessante il periodo prerisorgimentale, che include una statua e un ritratto di Ciro Menotti (1798-1831), nonché il manifesto in cui si proclamava la sentenza della sua condanna a morte, per aver congiurato contro il duca di Modena Francesco IV. Negli spazi del castello e nelle sale affrescate sono ospitate anche collezioni di quadri di Loschi ed esposizioni interessanti, come “Per Ugo da Carpi intaiatore” (fino al 29 giugno), con la sua tavola del 1524 “Veronica mostra il Volto Santo tra gli apostoli Pietro e Paolo”, e la mostra “Il rumore della memoria. Arte e impegno civile per i 50 anni del Museo del Deportato di Carpi (fino al 1° maggio), con toccanti disegni e dipinti di Aldo Carpi, Guttuso, Picasso, Carlo Levi, Emilio Vedova, Ernesto Treccani, Carrà. Il Museo Monumento del Deportato, a piano terra, inaugurato nel 1973 e gestito dalla Fondazione Fossoli, è dedicato alle vittime dei campi di sterminio nazisti (apertura da venerdì a domenica). Nel cortile, alte lastre di pietra grigia riportano incisi i nomi dei campi: tra questi appunto Fossoli, località a sei chilometri da Carpi, dove si può visitare quello che resta di un campo di concentramento costruito nel 1942 dal Regio Esercito per i prigionieri di guerra e poi utilizzato dalla RSI, per gli ebrei, dalla fine del 1943 al marzo 1944 (accesso libero domenica e festivi; in altri giorni su prenotazione). Sulla piazza si affaccia anche il bel Teatro comunale, del colore arancione che connota molti edifici della città, inaugurato nel 1861, dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Lasciata Carpi, ci siamo diretti nella vicina Correggio, città che ha dato l’appellativo al suo artista più famoso, il pittore Antonio Allegri (1489 –1534), cui è stato dedicato un bel monumento in marmo bianco di Carrara, scolpito dal ticinese Vincenzo Vela nel 1880: si trova in piazza San Quirino, allargata per l’occasione. Di origine medioevale, Correggio raggiunse il massimo splendore nei secoli XV – XVI; la Corte ospitò l’Ariosto, il Bembo, Ludovico il Moro. Divenne Principato nel 1616, ma neppure vent’anni dopo questo fu annesso al Ducato estense. L’elegante Palazzo dei Principi, sull’asse di corso Cavour, tra la bella basilica di San Quirino e il Teatro Asioli, fu fatto costruire dalla vedova del conte Borso da Correggio, Francesca di Brandeburgo, e fu completato nel 1507. La facciata, in cotto, presenta bifore e monofore; il portale è stupendo, con decorazioni a bassorilievo: viene considerato uno tra i più significativi esempi del rinascimento emiliano. Il bel cortile d’onore è porticato; da qui si accede alla Sala dei Putti, affrescata, e alla Biblioteca comunale. Salendo uno scalone si giunge a splendide stanze dove, oltre agli affreschi alle pareti, si possono ammirare soffitti a cassettone, come nella Sala del Camino. Al piano nobile ha sede il Museo Civico “Il Correggio”, con opere di pregio; qui sono esposti i pochi lavori di Antonio Allegri conservati nella sua città natale, ossia i dipinti a olio su tavola, “La Pietà” (1512), “Il Volto di Cristo” (1518), “Sant’Agata” (1523-1524), insieme a un disegno bifacciale, con apostoli e angeli – che compariranno negli affreschi della cupola del duomo di Parma – e alcuni suoi studi architettonici sul retro. Si possono ammirare anche un prezioso dipinto di Andrea Mantegna (1431-1506), ossia il Cristo Redentore (1493), bellissimi arazzi fiamminghi, ritratti, una statua lignea di Desiderio da Settignano (1430-1464), una collezione di monete della zecca di Correggio, e perfino il magnifico fortepiano settecentesco appartenuto al compositore correggese Bonifazio Asioli (1769-1832), di cui sono esposti spartiti e opere. A Correggio abbiamo pernottato all’elegante e tranquillo Phi Hotel dei Medaglioni, a pochi passi dal Palazzo dei Principi, prenotato tramite Booking, con un eccellente rapporto qualità/prezzo. Il centro storico – con le sue case antiche dalle facciate colorate in rosa, vermiglio, giallo, arancio, e i portici medioevali – ha un notevole fascino anche di notte, grazie a una sapiente illuminazione. Molto bello l’ottocentesco Palazzo Cattini (o dell’Orologio) su corso Mazzini. Per la cena abbiamo scelto “La Galera”, originale ristopub nel sotterraneo di un edificio storico, dove si possono gustare piatti locali e ottimi taglieri di salumi e formaggi.Il nostro giro è proseguito verso Finale Emilia, purtroppo ancora segnata dal terremoto del 2012: il 20 e il 29 maggio si ebbero due gravi eventi sismici, rispettivamente di magnitudo 5.8 Mw e 5.6 Mw, con ipocentri diversi, poco profondi, il primo connesso alla faglia Media di Ferrara, il secondo alla faglia di Mirandola. Fu proprio Finale Emilia l’epicentro della prima scossa. Non si escluse poi che al secondo evento avesse concorso anche l’attività estrattiva di idrocarburi dell’area. Appare dunque molto danneggiato il suo monumento più importante, il Castello delle Rocche (o Rocca Estense), risalente al 1402, originariamente costruito sul fiume Panaro (il cui corso fu deviato dalla città alla fine dell’Ottocento). Il suo torrione centrale crollò per le scosse. La Rocca è “messa in sicurezza” in un cantiere apparentemente abbandonato, in attesa dei necessari e costosi lavori di ristrutturazione, che al momento stanno riguardando ancora diversi quartieri della città. Fu pure drammaticamente abbattuta, poco distante, dopo essersi spaccata in due, la duecentesca Torre dei Modenesi, o Torre dell’Orologio, i cui resti divennero il simbolo della tragedia. Ci siamo quindi spostati a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, su un argine del Po, passando per zone di pianura coltivata attraversate dalla Secchia. Classificato come uno dei “borghi più belli d’Italia”, lascia incantati per la straordinaria piazza Bentivoglio (1580-1610): vastissima, quadrata (94,40 metri per lato) aveva il doppio ruolo di cortile d’onore del magnifico Palazzo e di piazza pubblica. Fu realizzata dall’architetto e idraulico ducale Giovan Battista Aleotti detto l’Argenta (1546-1636), ferrarese, su progetto voluto da Ippolito Bentivoglio. Sulla piazza, con il piano terra porticato e le facciate rese particolari dall’alternanza di edicole e piramidi, oltre al Palazzo Bentivoglio, residenza dei marchesi, si prospetta la bella Collegiata della Madonna della Neve, ricostruita nel ‘700 dopo una disastrosa alluvione. Purtroppo l’ubicazione di Gualtieri non aiuta certo la città in caso di esondazioni del Po: sui pilastri del porticato della piazza e sui muri sono ancora (ahimè) ben visibili i segni nerastri dovuti all’allagamento del 1951, quando le acque invasero le strade raggiungendo circa 3,80 m di altezza. Il Palazzo era chiuso per Pasqua (peccato!) e non siamo riusciti a visitarlo. Al suo interno si trovano sale affrescate e collezioni di dipinti e di costumi teatrali; ospita un museo documentario e un centro studi dedicati al grande pittore e scultore naif Antonio Ligabue (1899-1965), che giunse qui nell’agosto 1919 dalla natia Svizzera, da cui era stato espulso per aver aggredito la madre adottiva, e vi rimase – alternando il soggiorno, dal 1937 al 1945, a diversi ricoveri nell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia - fino alla morte. La tomba, che reca la sua maschera funebre in bronzo, opera dello scultore Andrea Mozzali, è al cimitero di Gualtieri.Ripresa l’auto, abbiamo percorso belle strade tra pioppeti, fermandoci anche per una breve passeggiata a piedi lungo una golena del Po a Brescello, nei luoghi resi famosi dai film degli anni ‘50 di Peppone e don Camillo, interpretati dagli indimenticabili Gino Cervi e Fernandel. La nostra ultima meta pasquale è stata Colorno: qui ci aspettava la cosiddetta “Versailles dei Duchi di Parma”, una meravigliosa Reggia, residenza dei Farnese, dei Borbone e infine della seconda moglie di Napoleone, Maria Luigia d’Austria. Nata dalla trasformazione di un palazzo signorile cinquecentesco, che ospitava una raffinata corte rinascimentale, la Reggia di Colorno si arricchì fin dal ‘600, sotto i Farnese, di ampliamenti, decorazioni, giardini, diventando un vero “luogo di delizia”. Nel ‘700 saranno i Borbone a dare un’ulteriore spinta alla ristrutturazione del complesso degli edifici e al miglioramento del vasto parco; e quando Maria Luigia diventerà duchessa di Parma, dopo la caduta di Napoleone, gli appartamenti e gli arredi, così come le aiuole, i labirinti di siepi, le alberature, avranno un abbellimento di grande eleganza, secondo il gusto francese. La visita è interessantissima e si svolge in tre parti: all’inizio si sale al piano nobile, dove si trovano sale affascinanti, dai soffitti affrescati, con mobili e oggetti di notevole valore antiquario; si passa poi, attraversando un cortile e uscendo sulla destra, alla cappella di san Liborio, che presenta una bellissima cupola affrescata; infine si entra nel prezioso appartamento del duca Ferdinando di Borbone (1751-1801), che amava moltissimo la residenza di Colorno, tanto da trascorrervi lunghi periodi passeggiando nei dintorni e dedicandosi a opere di ricostruzione e di edificazione di ponti, chiese, conventi. Ci siamo chiesti perché una tale bellezza, facilmente raggiungibile, non venga pubblicizzata molto di più, essendo una meta culturale di inestimabile valore: purtroppo non abbiamo neppure visto, lungo la strada, cartelli che segnalassero il luogo, così come per Gualtieri. In ogni caso, è proprio vero che in Italia, ovunque si vada, anche per un paio di giorni soltanto, si possono trovare meraviglie. 4 aprile 2024, Anna Busca MARZO 2024 LA FINLANDIA È IL PAESE PIÙ FELICE DEL MONDO PER IL 7° ANNO CONSECUTIVO Aperte le candidature per volare a Helsinki e scoprire tutti i trucchi della felicità finlandese con la nuova masterclass di Visit Finland e Helsinki Partners! È ufficiale: per il settimo anno consecutivo la Finlandia è stata nominata il Paese più felice del mondo. È quanto attesta il World Happiness Report pubblicato ogni anno dalle Nazioni Unite e reso noto oggi, nella giornata Internazionale della Felicità. Con un primato da record che vede la nazione aggiudicarsi il prestigioso titolo internazionale dal 2018, in molti si sono chiesti quale sia il segreto della felicità finlandese. Nessun mistero, solo la combinazione di elementi chiave che da sempre scandiscono l’esistenza di questo popolo, ovvero: la connessione con la natura, uno stile di vita equilibrato, cibo fresco e un approccio alla vita sostenibile. Secondo i finlandesi, infatti, la felicità non è un mistero ma piuttosto un insieme di trucchi e abilità da apprendere e mettere in pratica ogni giorno. Da una passeggiata nel bosco o un tuffo in mare dopo la sauna a un pasto preparato con ingredienti locali appena raccolti: ecco alcuni piccoli segreti per essere felici. Dopo il successo della prima Masterclass sulla Felicità lanciata nel 2023 nella magica regione dei laghi, la Finlandia torna ad ospitare dal 9 al 14 giugno 2024 un gruppo di fortunati provenienti da ogni angolo del globo a cui svelare i trucchi per essere felici. Per farlo, Visit Finland insieme ad Helsinki Partners, ha selezionato questa volta gli Helsinki Happiness Hacker: un team di hacker della felicità, composto da cinque helsinkiani, che guiderà il gruppo alla scoperta della capitale finlandese per apprendere tutti i trucchi per essere felici ogni giorno e trovare il finlandese che c’è in ognuno di loro. Come? Immergendosi nella vivace vita cittadina! A fare da filo conduttore della masterclass sui trucchi della felicità finlandese saranno quattro focus tematici: natura e stile di vita, salute ed equilibrio, design e quotidianità, alimentazione e benessere. La masterclass Helsinki Happiness Hacks con tanto di spedizione urbana nella capitale sarà interamente gratuita per i partecipanti selezionati e Visit Finland, insieme a Helsinki Partners, coprirà le spese di viaggio da e per la Finlandia. I fortunati vincitori potranno godere di un'esperienza di cinque giorni ideata e curata nei minimi dettagli dal team di hacker della felicità di Helsinki, che li guiderà alla scoperta del loro helsinkiano interiore. Le candidature alla masterclass sono aperte fino al 4 aprile 2024. Per candidarsi e trovare ulteriori informazioni, visita: https://www.visitfinland.com/it/helsinki-happiness-hacks-it/happiness-hackers-it/ · È possibile candidarsi fino al 4 aprile 2024. Gli interessati possono candidarsi partecipando alla challenge sui social e completando un modulo di iscrizione online disponibile sulla pagina web della campagna. · L'esperienza, organizzata da Visit Finland e Helsinki Partners, è completamente gratuita e prevede una masterclass di 5 giorni guidata da 5 helsinkiani, tra cui Lena Salmi (ex campionessa di nuoto e giornalista sportiva), Adela Pajunen (Biologa, scrittrice e sostenitrice del benessere attraverso la natura) e Luka Balac (rinomato esperto gastronomico e fondatore di 3 ristoranti di successo a Helsinki, tra cui il Nolla) Milano, 24 marzo 2024 c.stampa
UN SABATO A BOLOGNA Siamo riusciti a comprare online, sul sito di Flixbus, due biglietti andata/ritorno da Milano San Donato a Bologna, al prezzo – davvero vantaggioso! - di circa 10 euro ciascuno. Viaggio comodissimo, in perfetto orario: partenza alle 8.00 dal terminal, a poche decine di metri dal capolinea della linea gialla della metropolitana, e arrivo alle 10.20 alla Stazione delle Autolinee di Bologna, nei pressi della Stazione Centrale (ritorno alle 18.30, con arrivo a San Donato alle 20.45). La nostra meta principale era lo struggente Museo della Memoria di Ustica, raggiunto in neppure venti minuti a piedi percorrendo quasi in linea retta via Matteotti, via Ferrarese, fino a via di Saliceto 3/22 (www.mambo-bologna.org/museoustica ). Il museo ha sede nel quartiere della Bolognina, in un ex deposito tramviario, ed è visitabile gratuitamente sabato e domenica dalle 10 alle 18.30, oppure giovedì e venerdì dalle 9.30 alle 13.30. Questo luogo, dove si entra in silenzio restando profondamente commossi davanti all’installazione dell’artista Christian Boltanski – 81 lampadine, appese al soffitto, che si accendono e si spengono, come cuori pulsanti, e 81 specchi neri abbinati a registrazioni di voci sussurranti, tutti intorno al relitto dell’aereo- è stato voluto dall’”Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica”, fondata nel 1988 e presieduta da Daria Bonfietti, il cui fratello Alberto morì, a 37 anni, nel disastro. Erano circa le 21 della sera di venerdì 27 giugno 1980 quando i piloti del volo IH870, partito dall’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna alle 20.08, con due ore di ritardo, e diretto a Palermo, cessarono di rispondere alle torri di controllo, poco prima dell’atterraggio. L’aereo era un DC-9 dell’Itavia, con a bordo 81 persone, tra cui 13 bambini e 4 membri dell’equipaggio. Le ricerche portarono ad avvistare, all’alba, una chiazza oleosa, resti di corpi umani e oggetti nella zona di mare tra Ustica e Ponza: si parlò di cedimento strutturale, o di una collisione in volo, oppure di una bomba a bordo, tutte cause che furono poi scartate dalle indagini successive. Depistaggi e omissioni, bugie e smentite, nonché alcuni decessi misteriosi di controllori di volo, militari e piloti, collegati alla vicenda, confermarono che la verità dietro il disastro era “indicibile” per l’Aeronautica Militare italiana, anche se alcuni coraggiosi giornalisti d’inchiesta, tra i quali Andrea Purgatori, avevano proposto una spiegazione plausibile quanto spaventosa. Tracciati radar, faticosamente recuperati, mostravano un traffico aereo insolito intorno al DC-9, che a volte appariva come una doppia traccia, perché un velivolo “si nascondeva” utilizzandolo come schermo: si parlò quindi di una possibile azione militare franco-statunitense d’intercettamento, con Phantom F4, partiti da una portaerei americana, contro Mig libici nel cielo di Ustica. Uno dei missili lanciati contro questi avrebbe dunque finito per colpire e abbattere l’aereo di linea dell’Itavia. Il ritrovamento in Calabria, sulla Sila, del cadavere di un pilota libico e dei resti del suo Mig-23 (ufficialmente il 18 luglio 1980) alimentò questa ipotesi. Nel 1987 e nel 1991 si svolsero due importanti campagne di recupero dei resti del DC9, a 3700 m di profondità: emersero circa 2500 pezzi. Nella sala del museo il 96% del relitto – analizzato per l’inchiesta, con molti oblò ancora integri che escludono l’esplosione interna – è stato ricomposto, come una sorta di fossile gigante di 15 tonnellate e 31 m di lunghezza, che ci parla di una storia del passato, ma ancora vivissima per tutti: in una saletta si può assistere alla proiezione di un commovente filmato in cui si dà metaforicamente voce all’aereo caduto. A tutt’oggi, né le dinamiche esatte di quanto successo né i nomi dei responsabili politici e militari dell’attacco, sferrato come azione di guerra in tempo di pace, in violazione di confini e diritti, senza alcun riguardo e pietà nei confronti di 81 esseri umani innocenti - solo 38 i corpi restituiti alle loro famiglie - sono stati chiariti e resi noti, nonostante decenni di inchieste parlamentari e giudiziarie e la connessa desecretazione di documenti importanti.Nel giardino, grazie a un poster, si può accedere tramite Qr code all’importante archivio degli articoli di Andrea Purgatori sulla strage di Ustica (https://archivioandreapurgatori.it/ ). A breve distanza, la Stazione Centrale, di fine Ottocento: devastata dai bombardamenti angloamericani del 1945 e ricostruita, non si può dimenticare che subì un gravissimo attentato terroristico di matrice neofascista e piduista il 2 agosto 1980, a poco più di un mese dalla tragedia di Ustica. Una bomba nascosta in una valigia scoppiò alle 10.25 nella sala d’aspetto, distruggendo l’ala occidentale, sotto le cui macerie rimasero 85 vittime. I feriti furono duecento, numerosi con gravi mutilazioni. Il loro memoriale è la stazione stessa: l’orologio è rimasto fermo all’ora della strage, e una grande lapide riporta incisi i nomi dei morti. Anche in questo caso non si è ancora raggiunta la verità completa su mandanti ed esecutori. La nostra visita è proseguita nel centro della città, raggiunto a piedi con una bella passeggiata sotto i portici di via dell’Indipendenza. Dopo un’ottima sosta culinaria al bistrot “La Sberla” di via Altabella 12/e, prenotato tramite The Fork, a due passi da piazza Maggiore, eccoci alla chiesa di Santa Maria della Vita (via Clavature 8/10), ad ammirare il magnifico gruppo scultoreo del “Compianto sul Cristo morto”, del XV secolo, opera di Niccolò dell’Arca, definita da Gabriele d’Annunzio “l’urlo di pietra”. Le figure femminili appaiono in movimento, con le bocche aperte e distorte da cui sembrano proprio uscire alte grida di orrore davanti al cadavere di Cristo: in particolare Maria Maddalena è qui proposta come una sorta di immagine “futurista”, dalle pieghe delle vesti che lasciano immaginare una corsa disperata verso il luogo della deposizione, simbolo iconico di chi prova il dolore immenso per la perdita di una persona amata. Non poteva mancare l’ingresso alla vicina Basilica di San Petronio, dove, a pagamento, è imperdibile la Cappella Bolognini, o Cappella dei Magi: sulla parete di sinistra è affrescato un grandioso Giudizio Universale, opera del 1410 di Giovanni da Modena, artista autore anche delle magnifiche Storie dei Re magi sulla parete di destra. Le scene dell’Inferno, che richiamano la prima cantica della Divina Commedia, sono potenti e impressionanti: un gigantesco Lucifero peloso troneggia al centro, con due teste, una delle quali corrisponde anatomicamente ai genitali; entrambe le bocche divorano un dannato. Sulla bellissima piazza Maggiore si affaccia Palazzo d’Accursio, sede dal 1336 del Comune di Bologna. Si entra gratuitamente, ma sono a pagamento le vaste e preziose Collezioni comunali e la Torre dell’Orologio per la quale, nei week end, è necessaria la prenotazione. Meravigliosa, al secondo piano (raggiunto con uno scenografico scalone), in quello che fu l’appartamento invernale del cardinal Legato, la Sala Boschereccia, decorata a tempera nel 1797 da Vincenzo Martinelli e Giuseppe Valiani - eccellenti pittori di “stanze-paese”- con al centro lo stupendo Apollino del Canova. Bellissimi i dipinti esposti nelle gallerie e nelle sale, in particolare una raccolta di opere di Pelagio Palagi (1775 -1860), bolognese, pittore, scultore e architetto geniale, collezionista di vasta cultura, senz’altro meritevole di maggior fama. La nostra visita ha poi toccato altri luoghi ricchissimi di arte e memoria, come la Basilica di San Domenico, con la magnifica Cappella del Rosario e la Cappella di san Domenico, affrescata nel catino absidale da Guido Reni nel 1613-1615, che conserva l’Arca marmorea contenente i resti di san Domenico di Guzman, opera preziosissima di Nicola Pisano (sarcofago, 1264-1267) e di Niccolò dell’Arca (statue e cimasa, 1469-1473), cui il diciannovenne Michelangelo diede il suo contributo con tre piccole statue (1494). Splendido il complesso delle Sette Chiese, a Santo Stefano, e affascinante la chiesa di Santa Maria dei Servi, del XIV secolo, con un quadriportico ripreso da Pier Paolo Pasolini nel suo film “Edipo Re”. Casualmente siamo passati proprio davanti alla casa dove nacque il grande poeta, scrittore e regista, il 5 marzo 1922, al numero 4 di via Borgonuovo. Poco lontano, la casa natale di uno straordinario cantautore: la targa ricorda che “Il 4 marzo 1943 in questa casa che si affaccia su “piazza Grande” nacque Lucio Dalla”. E la musica è stata un buon motivo per l’ultima visita prima del rientro: a Palazzo Sanguinetti, in Strada Maggiore, nelle splendide sale decorate da Martinelli e da Palagi, si possono ammirare strumenti antichi, spartiti, manoscritti, libretti e lettere di grandi musicisti, insieme a busti e ritratti, in un percorso musicale raffinatissimo che spazia dal XV al XIX secolo (Museo internazionale e biblioteca della musica, www.museibologna.it/musica ).18 marzo 2024, Anna Busca |